Gli angeli ribelli Satana e Belzebù. Paradiso Perduto.Milton.+ Passepartout.1881

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DIDASCALIA: REPENTE  EGLI  ERGE  DAL  BOLLENTE  GORGO SUA  VASTA  MOLE; LIBRI  I,  v.  280 - 281. AUTORE: Gustave  Doré. *  RIPORTO  INTEGRALMENTE  IL  LIBRO  I  DELL'OPERA,  A  SCOPO  DIDATTICO-DIVULGATIVO. CHI  NON  E'  INTERESSATO  A  LEGGERE  IL  POEMA,  PUO'  SALTARE  I  VERSI  E  LEGGERE  LA  DESCRIZIONE  DELLA  XILOGRAFIA.

In questo primo libro si propone in breve il soggetto del poema, cioè la disubbidienza dell’uomo e la perdita del paradiso in cui egli era stato collocato; e si accenna la prima cagione di sua caduta, cioè il serpente, o piuttosto Satáno nascosto entro il serpente, che già ribellandosi a Dio, e traendo alla sua parte molte legioni d’Angeli, fu per divino comando scacciato dal cielo con tutta la sua torma nel gran Profondo. Dopo ciò il poeta entra nel soggetto e rappresenta Satáno e gli angeli suoi in mezzo all’inferno, ch’è posto non già nel centro del mondo (poiché il cielo e la terra ancora non erano), ma in un luogo di tenebre esteriori, più acconciamente chiamato Caos. Là Satáno, giacente sul lago di fuoco co’ suoi Angeli, fulminato e stordito, ripiglia spirito e tien parole con Belzebù, il primo dopo di lui in potenza e dignità. Parlano eglino insieme della loro infelice caduta: Satáno risveglia le sue regioni che si alzano dalle fiamme. Loro numero, ordine di battaglia, e principali Capi sotto i nomi degl’idoli conosciuti di poi in Canaan e nelle vicine contrade. Il principe di Demonj rivolge loro il discorso, gli conforta con la speranza di racquistare il cielo, e loro parla infine d’un nuovo mondo, e d’una nuova creatura che doveva un giorno essere creata secondo un’antica profezia o racconto sparso in cielo, giacchè parecchi antichi Padri credono gli Angeli esser creati molto tempo innanzi a questo mondo visibile. Propone Satáno di esaminare in pieno consiglio il senso di quella profezia, e decidere quel che si possa in conseguenza tentare. Il Pandemonio, palagio di Satáno, sorge, fabbricato ad un tratto, fuori dal Profondo. gli spiriti infernali vi si raccolgono per deliberare.

  Dell’uom la prima colpa e del vietato Arbor ferale il malgustato frutto, Che l’Eden ci rapì, che fu di morte E d’ogni male apportator nel mondo, 5 Finchè un Uomo divin l’alto racquisto Fa del seggio beato e a noi lo rende, Canta, o Musa del ciel; tu che del Sina dell’Orebbe in sul romito giogo Inspirasti il pastor che primo instrusse 10 La stirpe eletta come i cieli e come La terra in pria fuor del Caosse usciro; se più di Sión t’aggrada il colle, il rio di Siloè che al tempio augusto Di Dio scorrea vicino, indi tua fida 15 Aita imploro all’animoso canto Che d’innalzarsi a nobil volo aspira Oltre l’Aonio monte, e a dir imprende Cose ancor non tentate in prosa o rima. E pria tu Divo Spirto, a cui più grato 20 È d’ogni tempo un retto core e puro, Sii, tu che sai, maestro mio: presente Dal principio tu fosti, e con distese Ali robuste, di colomba in guisa, Stesti covante sopra il vasto abisso, 25 E di virtù feconda il sen n’empiesti. Tu quanto è oscuro in me rischiara, e quanto È basso e infermo, in alto leva e reggi, Onde sorgendo a par del tema eccelso, Svelare all’uom la Provvidenza eterna 30 Io possa, e scioglier d’ogni dubbio gli alti Di Dio consigli e le ragioni arcane. Narra tu prima (poichè nulla il cielo, Nulla l’inferno agli occhi tuoi nasconde), Narra qual mai cagion gli antichi nostri 35 Padri, sì cari al cielo e in sì felice Stato locati, a ribellarsi mosse Da lui che gli creò. Mentre signori Eran del mondo, un suo leggier divieto Come romper fur osi? Al turpe eccesso 40 Chi sedusse gl’ingrati? Il Serpe reo D’inferno fu. Mastro di frodi e punto Da livore e vendetta egli l’antica Nostra madre ingannò, quando l’insano Orgoglio suo dal ciel cacciato l’ebbe 45 Con tutta l’oste de’ rubelli Spirti. Su lor coll’armi loro alto a levarsi Ambìa l’iniquo e d’agguagliarsi a Dio Pensò, se a Dio si fosse opposto. Il folle Pensier superbo rivolgendo in mente, 50 Incontro al soglio del Monarca eterno Mosse empia guerra e a temeraria pugna Venne, ma invan. L’onnipossente braccio Tra incendio immenso e orribile ruina Fuor lo scagliò dalle superne sedi 55 Giù capovolto e divampante in nero, Privo di fondo disperato abisso; Ove in catene d’adamante stretto A starsi fu dannato e in fiamme ultrici Qual tracotato sfidator di Dio, 60 E già lo spazio che fra noi misura La notte e ’l dì, nove fiate scorse, Che con l’orrida ciurma avvolto ei stava Nell’igneo golfo, tutto sbigottito Benchè immortal. Pur lo serbava ancora 65 A maggior pena il suo decreto. Intanto L’aspro pensiero del perduto bene, E del futuro interminabil danno Il cruccia alternamente. Intorno ei gira Le bieche luci una profonda ambascia 70 Spiranti e un cupo abbattimento misto D’odio tenace e d’indurato orgoglio: Ed in un punto, quanto lungi il guardo D’un Angelo si stende, ei l’occhio manda Su quell’atroce, aspro, diserto sito; 75 Carcere orrendo, simile a fiammante Fornace immensa; ma non già da quelle Tetre fiamme esce luce; un torbo e nero Baglior tramandan solo, onde si scorge La tenebrosa avviluppata massa 80 E feri aspetti e luride ombre e campi D’ambascia e duol, dove non pace mai, Non mai posa si trova, e la speranza Che per tutto penétra, unqua non scende. Quivi è tormento senza fin, che ognora 85 Incalza più, quivi si spande eterno Un diluvio di foco, ognor nudrito Da sempre acceso e inconsumabil solfo. Tal la Giustizia eterna a quei ribelli Aveva apparecchiata orrenda chiostra 90 D’esterno tenebror, remota tanto Dalla luce del ciel quant’è tre volte Lontan dal centro della terra il polo Dell’Universo. Oh dalla stanza prima Stanza diversa! Egli i compagni quivi 95 Di sua caduta scerne urtati, avvolti Fra i turbinosi vortici, fra i gorghi Del tempestoso foco, ed al suo fianco Voltolantesi quei che gli era in cielo In potere e ’n delitto il più vicino, 100 E noto poscia e Belzebù nomato Fu in Palestina. Ad esso il gran Nemico (Satáno è detto in ciel) si volse, e in queste Parole audaci il fier silenzio ruppe: Se quel tu sei... (Ma qual ti miro, e quanto 105 Cangiato da colui che ne’ beati Regni di luce tante schiere e tante Di Spirti fulgidissimi vincevi Tutto vestito di fulgór!). Se quegli Tu se’ che nell’ardita illustre impresa 110 I conformi pensier, le stesse voglie, Egual speranza ed egual rischio meco Strinsero in salda lega e che or congiunge Un crudo egual destin, da quale altezza Vedi in qual ruinammo orribil fondo! 115 Tanto la folgor sua colui più forte Rese di noi: fatale atroce telo! Chi pria d’allor ne conoscea la possa? Ma non io per quell’arme, e non per quanto L’ira del vincitor su me s’aggravi, 120 Non io mi pento o cangio: invan son io Di fuor cangiato, il cor lo stesso è sempre; Del mio spregiato merto ivi entro impressa Altamente ho l’ingiuria, hovvi confitto Il fero sdegno che a lottar mi spinse 125 Con quel Possente. E che! Potei pur trarre Contr’esso in campo innumerabil’oste Di congiurati valorosi Spirti Che il regno suo dannavano, che a lui Me preferìan, che di virtù, d’ardire 130 Diero alte prove memorande incontro Gli estremi sforzi suoi, che sugl’immensi Lassù celesti campi in dubbia lance Tenner vittoria e gli crollaro il trono! Perduto è il campo, e sia: perduto il tutto 135 Dunque sarà? Quell’invincibil, fermo Voler ci resta ancor, quel di vendetta Fero desìo, quell’immortal rancore E quel coraggio che non mai s’abbatte, Che mai non si sommette. E che altro è mai 140 L’essere invitto ed invincibil? Questo Vanto la rabbia sua, la sua possanza No, non avrà da me. Ch’io grazia chieda? Ch’io mi prostri al suo piè? che qual mio Nume, Qual mio Signor lui riconosca e onori, 145 Lui che il terror di questo braccio mise Testè del regno in forse? Ah! questa invero Fora viltà, fora ignominia ed onta Peggior della caduta. Or poichè ’l Fato Tai ci formò che il vigor nostro e questa 150 Celestïal sustanza unqua non ponno Venirci men, poichè la fresca prova Di tanto evento noi peggiori in arme Punto non rese, e il preveder ci accrebbe, Con speranza miglior, nuova ostinata 155 Guerra eterna moviamgli, e forza e frode S’impieghi contro lui ch’ebbro d’orgoglio Ora gioisce ai nostri mali, e solo Da tiranno nel ciel trionfa e regna. Così Satán, nel tormentato fondo 160 Del cor premendo un disperar feroce, Imbaldanziva favellando, e a lui Tal diè risposta il suo compagno audace: Prence di tanti Eroi, sovrano Duce Di tanti Duci, che al tuo cenno intenti 165 De’ Serafini le ordinate squadre Condussero al conflitto, e sempre in ogni Più duro scontro impavidi e tremendi Poser l’Eterno in rischio, e prova fèro S’ei per forza o per caso o per destino 170 Lassù tenesse il primo seggio, e come Vuoi ch’io non vegga il lacrimabil caso Che il ciel ne ha tolto, e sì grand’oste ha tutta Spinta in ruina orribile, per quanto Posson perir celesti Essenze e Numi? 175 Ah troppo il veggo, ah troppo il sento! È vero Che sebben spenta sia la gloria nostra, E quel primier felice stato assorto In eterna miseria, un’alma in noi Invincibil rimane, e al core, e al braccio 180 Il perduto vigor pronto ritorna; Ma che valer ci può, qual pro che il nostro Onnipossente vincitor (m’è forza Ora crederlo tal, chè tal se in vero Egli non fosse, soggiogar tentato 185 Un poter pari al nostro avrebbe invano), Qual pro che questa forza e questo spirto Ci lasci integri? Non vuol ei capaci Così farci d’un duol che fin non abbia Per pascer senza fin quel suo feroce 190 Di vendetta inesplebile talento? Ah! che quai schiavi per ragion di guerra A qualunque pensier gli sorga in mente Egli ci serba; ad opre indegne e dure Forse ei qui ci destina in mezzo al foco, 195 O messaggeri suoi pel tenebroso Imo baràtro. Il non scemato adunque Nostro vigor, la nostra essenza eterna Altro fruttar ci può che eterna pena? Caduto Cherubino (a lui risponde 200 Vivamente Satáno), alma che langue, Nell’oprar, nel soffrir, misera è sempre. Tu certo intanto sii che nostra impresa Il ben non fia mai più. Nel male ognora, Nel mal che opposto è per natura all’alto 205 Voler di quei cui facciam guerra, il sommo Dobiam cercar nostro diletto e vanto. Studi egli pur con provvido consiglio Volgere in bene il male; ogni nostr’arte Quel suo disegno a distornar si volga, 210 E fuor del seno ancor del bene stesso Per nostre oblique trame il mal germogli. Ciò può spesso avvenirci, e, s’io non erro. Forse ei vedrà dolente i suoi più chiusi Pensieri ir lungi dal proposto segno. 215 Ma vedi tu? Quel vincitore irato Alle porte del cielo i suoi ministri D’inseguimento e di vendetta indietro Ha richiamati. Quel sulfureo nembo, Quella rovente impetuosa folta 220 Grandine ond’ei nel precipizio nostro Ci flagellava, dileguossi omai; E ’l tuon dell’ali sue di rabbia e foco Scarichi tutti e logri alfin gli strali Ha forse, e cessa di mugghiar pel vasto 225 Abisso interminato. Afferriam pronti L’occasion che, sia dispregio o sia Sazio furore, or ci abbandona il nostro Crudo nemico. Vedi tu quell’ermo Lugubre piano, inospite, coverto 230 Di folta tenebrìa, tranne quel raggio Che spaventoso e lurido vi getta Di queste vampe il livido barlume? Lungi colà dal tempestar di queste Onde focose indirizziamci, ed ivi 235 Posiam, se posa esser vi puote alcuna; E raccogliendo le disperse schiere, Cerchiam qual via ci resti, onde al nemico Più grave danno in avvenir s’arrechi; Cerchiam qual sia della sconfitta nostra 240 Il riparo miglior, come sì cruda Sciagura superar, qual dalla speme Forza ritrarre, o, in fin, qual dar ci possa La disperazïon consiglio estremo. Così al compagno suo dicea Satáno 245 Colla testa alta fuor dell’onde, e fuori Degli occhi folgorando orribil lume: Prono su i flutti e galleggiante il resto Delle immani sue membra un ampio e lungo Spazio di molti iugeri coprìa. 250 Tali in lor mole della terra i figli La favolosa Grecia a noi dipinse Che osâr Giove assalir, quel Briaréo O quel Tifóne, cui di Tarso antica Il grand’antro accogliea. Tal è fors’anco 255 Quel mostro enorme, a cui null’altro eguale, Fra quanti l’ampio mar rompon col nuoto, Creonne Iddio. Sulle Norvegie spume (Se la fama col falso il ver non mesce) Ove in lui steso per dormir s’abbatta 260 Il pallido nocchier di picciol legno In buia notte a naufragar vicino, Spesso un’isola il crede, in sua scagliosa Scorza l’áncora gitta e a lui s’afferra, Finchè la notte il mar ricopre, e tarda 265 La sospirata aurora. Incatenato Su quell’ardente pelago giacea Così vasto e disteso il gran nemico; Nè alzata mai, nè scossa pur l’altera Cervice avrìa di là, se il ciel che tutto 270 Regge e governa, non lasciava appieno Ai disegni di lui libero il corso; Ond’egli colpe accumulando a colpe E l’altrui mal cercando, anco sul capo Dell’ira eterna s’accrescesse il peso, 275 E furibondo al fin non altro frutto Fuor dell’arti sue prave uscir vedesse Che infinita bontà, grazia, mercede Sull’uom da lui sedotto, e piover doppio Scorno sopra di sè, furor, vendetta. 280 Repente egli erge dal bollente gorgo Sua vasta mole; d’ambo i lati spinte Torcon le fiamme le appuntate cime E raggirate in grosse onde nel mezzo Lascian orrida valle. Alto egli spande 285 L’ali e dirizza il vol per l’aria fosca Che stride al peso inusitato, e sovra L’arida terra approda alfin, se terra Quella pur è che di massiccio foco Tutt’arde ognor, siccome il lago ardea 290 Di foco alliquidito; e tal rassembra Qual di rabbiosi sotterranei fiati Per la gran forza da Peloro svelto E via scagliato alpestre masso; o quale Di Mongibello il fracassato fianco, 295 Quando le gorgoglianti ime fornaci Di solfo pregne e d’irritati venti Fuore sbocca tonando e al guardo scopre Tutte di fumo e di fetor ravvolte Le arroventate orribili caverne. 300 Sopra sì fatto suol, dal suo compagno Seguìto ognor, le maledette piante Satáno arresta, e baldanzosi entrambi Vantansi dalla Stigia accesa lama Per la lor propria ricovrata forza, 305 Quai Dei, scampati, e che il gran Re del Tutto Così permise, immaginar non sanno. Quest’è la regïon, la terra è questa, Disse Satáno allor, quest’è la sede Che abitar ci convien del cielo invece? 310 Questo lugubre orror per quella viva Serena luce? Or sia; poichè colui Ch’adesso è Re, così dispone e assesta Il retto e ’l giusto al suo piacer sovrano. Sì, miglior sempre il più lontano albergo 315 Sarà da quegli, cui Ragione agli altri Agguaglia, e Forza sopra gli altri innalza. Addio, felici campi; addio, soggiorno D’eterna gioia. Salve, o Mondo inferno, Salvete, Orrori; e tu, profondo Abisso, 320 Il tuo novello possessore accogli; Accogli quei che in petto un’alma serra Per loco o tempo non mutabil mai. L’alma in se stessa alberga, e in sè trasforma Nel ciel l’inferno e nell’inferno il cielo: 325 Che importa ov’io mi sia, se ognor lo stesso, E qual deggio, son io? se tutto io sono, Fuorchè minor di lui che il fulmin solo Fe’ più grande di me? Liberi almeno, Qui liberi sarem: questo soggiorno 330 Egli non fece onde lo invidii, e quindi Sbandirci non vorrà: regnar sicuri Qui noi possiamo, e, al parer mio, quaggiuso Anco è bello il regnar; sì, miglior sempre Che in ciel servaggio, è nell’inferno un regno. 335 Ma perchè i nostri sventurati e fidi Compagni e amici, istupiditi, avvolti Lasciam colà sul fero lago, e a parte Non gl’invitiam con noi di nostra sorte? Sì, consultiam, veggiam ciò che, raccolte 340 Nostr’armi, in cielo racquistar si possa, O se a perder quaggiuso altro ci resta. Così Satán parlava, e in questi accenti Rispose Belzebù: Duce di quelle Raggianti schiere, cui sconfigger solo 345 Potea chi tutto può, se ancora il suono Di tua voce elle udran, di quella voce Che, quando più ostinata, incerta, orrenda La pugna inferocía, di loro speme Fu il pegno animator, fu in ogni assalto 350 Il più sicuro ed ubbidito segno, Se ancor la udran, nuovo coraggio in esse Vedrai rinascer tosto e nuova vita. Or se, qual noi testè, sull’igneo lago Trambasciate si stan, stordite, inerti, 355 Meraviglia non è dopo cotanto Spaventevol caduta. Aveva appena Di dir cessato Belzebù che l’altro Vèr la spiaggia movea. Dietro le spalle Ei si gittò lo scudo, eterea tempra, 360 Ponderoso, massiccio, ampio, rotondo: Il largo cerchio a tergo gli pendea Simile a luna, quando a sera il grande Toscan Maestro con suoi vetri industri Dal Fiesolano colle o di Valdarno 365 La sta mirando a discoprir novelle Terre e nuove montagne e nuovi fiumi Nel maculato globo. All’asta sua Se il più gran pin delle Norvegie selve Troncato a farne smisurata antenna 370 Di regal nave, agguagli, è verga lieve Nella sua man: con essa ei regge e ferma Sulla rovente sabbia i passi, oh quanto Da quei diversi che sul piano azzurro Dell’Empireo movea! La torrid’aura, 375 Che sul suo capo l’ignea volta manda, Forte anco il fiede e abbronza; ei nulla cura Per tanto ed oltre va, finchè sul margo Di quel mare infiammato il piede arresta. Alza il grido colà verso le sue 380 Prostese innumerabili falangi Che ammucchiate giacean qual sotto gli alti Archi de’ boschi opachi in Vallombrosa S’ammassano e ricoprono i suggetti Rivi in autunno le cadute foglie: 385 E forse è folta men l’alga ondeggiante Quando Orión di feri venti armato Tutto dall’imo fondo alza e sconvolge Quel mar famoso, entro i cui flutti vide Il perseguìto Ebreo dal salvo lido 390 Busiri andar con l’oste sua sommerso, E galleggiar tra rotti carri i morti Cavalli e cavalieri e fanti avvolti. Così densa coprìa quel vasto gorgo La perduta oste rea, che più se stessa 395 Per lo stupor del cangiamento strano Non conosceva: alto ei chiamolla, e tutti Rintronàr dell’inferno i cupi seni A quella voce: O Potentati, o Prenci, Guerrieri che del ciel l’onor già foste, 400 Del ciel già vostro, ed ora, oimè! perduto, Se un letargo simìl voi, Spirti eterni, Puote ingombrar così: questa dimora Sceglieste forse a ristorar la stanca Vostra virtù dopo la pugna? è questo, 405 Come lassù del ciel le amene valli, Il loco adatto ai vostri sonni? o in tale Postura abietta d’adorar giuraste Il vincitor? Ch’ei dal suo trono or miri Le vostre insegne, le vostr’armi sparte, 410 E voi medesimi in questo mar convolti, Nulla curate? Ma che parlo? Forse State attendendo che, il vantaggio scorto, Quel suo veloce inseguitor drappello Dalle soglie del ciel scenda a calcarci 415 Giù col piede le languide cervici, O co’ fulminei catenati strali Di questo golfo ci conficchi al fondo? Scuotetevi, sorgete, o eternamente Siate perduti. Eglino udir, vergogna 420 Gli punse, e l’ali dibattendo, a un tratto Tutti s’alzaro. Quasi talor sull’armi Dal capitan temuto a dormir colte Le sentinelle, non ben deste ancora Rizzansi e mostra fan d’ardite e franche, 425 Tai sembravan coloro. Il crudo stato Senton ben essi e le lor pene acerbe: Ma pur del Duce al grido in un istante Obbedisce ciascun; tutto all’intorno Si scuote, tutto freme e tutto ondeggia. 430 Così al brandir della possente verga Del figliuol d’Amràm vide l’Egitto Inorridito in quel feral suo giorno, Curva sull’Euro comparir repente Caliginosa mormorante nube 435 Di voraci locuste, e, come notte, Dell’empio Faraòn pender sul regno E coprirlo di tenebre. Tal era L’innumerabil numero di quelle Malvagie squadre che laggiù d’inferno 440 Sotto la vôlta, tra le basse ed alte E d’ogni lato circolanti vampe, Stavan sospese sugli aperti vanni; Finchè, qual segno, l’aggirata in alto Asta del magno Imperador diresse 445 Il corso lor. Sulle librate penne A quella vôlta giù tosto si calano Sovra quel fermo solfo e ’l vasto piano Ingombran tutto; immensa torma, a cui Una simil non mai versò da’ suoi 450 Ghiacciati fianchi il popoloso Norte, Quando, varcata la Danoia e ’l Reno, Come un diluvio, i barbari suoi figli Cadder sull’Austro e passâr Calpe, e tutte Le Libiche inondaro aduste sabbie. 455 Repente fuor d’ogni squadrone uscendo I condottier colà s’affrettan dove Stava il gran Duce lor; divine, eccelse Sembianze e forme, ogni beltà terrena Superanti d’assai; Principi e Regi 460 Ch’eran nel ciel poc’anzi assisi in trono. Ogni memoria de’ lor nomi spenta Or è lassuso, cancellati e rasi Per la lor fellonía da’ libri eterni Di vita eternamente, e nuovi nomi 465 D’Eva tra i figli non aveano ancora. Iddio provar l’uom volle e lor permise D’ir la terra scorrendo, e sì potero La più gran parte dell’uman lignaggio Togliere al culto del verace Dio 470 Con lor menzogne e loro inganni, ond’essa Lui glorioso, onnipossente, eterno, Non comprensibil, non visibil, spesso Coll’insensata imagine d’un bruto Tutta di pompe e d’ôr cinta e coperta 475 Scambiò miseramente, e, come Numi, I Démoni adorò. Diversi allora Ebber costoro in terra idoli e nomi. Di’, Musa, dunque i nomi lor; chi prima Surse, chi poi da quel bollente letto, 480 Da quel letargo, e, dietro a sè lasciando De’ minori guerrier la turba immensa, Solo avvïossi ove il gran Duce alzava Su quella spiaggia orribile e deserta La rampognante imperïosa voce. 485 Capi eran quei che dal profondo abisso, Lungo tempo dipoi, di preda in traccia All’aure usciti, di locar vicine Alla sede di Dio lor sedi osaro E l’are lor presso alla sua; che gli empi 490 Voti usurpar de’ popoli e gl’incensi. Di Iéova stesso in trono assiso e cinto Da’ Cherubini suoi lo sguardo e ’l braccio Fulminator non spaventolli, e spesso Dentro Sionne ancor, dentro il medesmo 495 Santuario di lui gli abbominandi Lor simulacri spinsero, le auguste Pompe e i riti ineffabili e tremendi Profanar s’attentaro, e l’empie loro Tenebre opporre all’immortal sua luce. 500 Primo è Molocco, orrido Re, che bebbe L’umano sangue ed i materni pianti Sugli altari crudeli, ove le strida Delle vittime sue tra ’l foco avvolte Soffocava un frastuono alto, incessante 505 Di tamburi e taballi. A lui prostrossi L’Ammoníta entro Rabba; e nelle sue Pianure acquose ed in Basanne e Argobbe Fin dell’Arnonne alle rimote sponde: Nè pago ancora di cotanto audace 510 Sua vicinanza, il saggio cor sedusse Di Salomone fabbricargli un tempio In faccia al divin tempio, in cima a quella Montagna obbrobriosa, e suo boschetto Fece d’Innòm la dilettosa valle 515 Ch’ebbe indi il nome di Toféto e d’atra Géenna, dell’inferno orrida imago. L’altro è Chemosse, di Moabbo a’ figli Spavento osceno da Aroarre a Nebo Fin d’Abarimme alle remote australi 520 Erme contrade. In Esebòna ancora Stese l’impero e in Oronài, reame Di Seòne, e di Sibma oltre la valle Di liete vigne e fior tutta ridente, E corse audace in Eleal perfino 525 All’Asfaltico stagno. Ei di Peorre Il nome ancor portò, quando Israello, Mentre fuggìa dalle Niliache sponde, Colà in Sittimme ai suoi lascivi riti Fu sedotto da lui, riti che furo 530 Di tanti mali la fatal sorgente. Ei distese di là sovra quel colle D’infamia eterna, che sorgea vicino Del fier Molocco alla cruenta selva, L’orgie impudiche, e mescolò col sangue 535 Le libidini sue, finchè d’entrambi A terra il buon Giosía gli altari sparse E nell’inferno gli rispinse. Appresso A questi due venìan quei Spirti impuri Che dalle sponde del vicino Eufrate 540 Al rio che dall’Egitto Assiria parte, Di Baalimmi e di Astarotte i nomi Comuni avean tra numeroso stuolo; Dei quelli, e Dive queste. A lor talento Or l’uno or l’altro sesso ed ambi insieme 545 Prendon gli Spirti ancor: pieghevol tanto È lor pura sustanza, e lieve e molle; Tanto ella vince la mortal struttura Che di polpe e di nervi e d’ossa insieme È contesta ed ingombra. In ogni forma 550 Oscura o luminosa, o densa o rara, Qual più lor giova, or d’odio, ora d’amore Possono i rei disegni in opra porre. Per essi i figli d’Israello infidi, Al sommo Dio, lor viva forza, spesso 555 Volsero il tergo, e infrequentata e muta Lasciando l’ara sua, curvâr le fronti Dianzi a brutali Numi, onde quell’empie Cervici lor di tanta colpa carche Poscia in campo mietè vil ferro imbelle. 560 Venìa con lor quell’Astaréte in schiera, Che da’ Fenici poi fu detta Astarte, Del ciel notturna regnatrice, ornata Delle crescenti luminose corna. Alla corrusca imagin sua fur use 565 Per l’aer bruno offrir lor voti ed inni Le Sidonie donzelle, e culto ed ara In Sionne ebbe ancor sull’empio monte Fondata da quel Re che il saggio core Tra femminili amor corruppe, e spinto 570 Da sue belle idolatre, idoli immondi Pur cadde ad incensar. Venìa Tammuzo Poi, la cui piaga riaperta ogn’anno Ogn’anno ancor rinnovellava il duolo Delle Siriache vergini che in triste 575 Note d’amore al Libano d’intorno Tutto un estivo dì stavan piangendo L’acerbo fato suo, mentre vermiglie Adoni al mar volgea le placid’onde Dalla natía sua rupe, e a lor parea 580 Mostrar in esse di Tammuzo il sangue. Di pari ardor quell’amorosa fola Infettò di Sionne ancor le figlie; E ben le turpi lor fiamme lascive Fin dentro i sacri portici scoprío 585 Ezechïel quando girò sull’empie Idolatrie del ribellato Giuda L’occhio ripien della virtù superna. Quegli poscia venìa che vivo duolo Sentì nel cor quando la propria imago 590 Entro il suo tempio stesso a un tratto monca Farsi dall’arca prigioniera ei vide, E via le tronche mani e la spiccata Testa balzarne rotolando al suolo, De’ suoi scornati adoratori al piede. 595 Dagón fu il nome suo, marino mostro, Uom sopra e pesce in basso: alto sorgea Il suo tempio in Azóto e i lidi tutti Di Palestina ed Ascalona e Gata Fin d’Accarón ai termini e di Gaza 600 Temean suo scettro. Lo seguìa Rimmone Ch’ebbe nel bel Damasco ameno seggio D’Abbana e di Farfarre in sulle vaghe Fertili rive. Egli pur erse incontro Alla magion di Dio l’audace fronte, 605 E se un lebbroso Duce ei vide un giorno Abbandonar suo culto, un Re pur vide Prestargli omaggio: Aazo ei fu, quel folle Suo vincitor, che del verace Dio Spregiò, rimosse l’ara, e un’altra a guisa 610 Delle Assirie n’eresse, ov’empi incensi Arse agli Dei già da lui vinti e domi. Folta appo questi una gran torma apparve Che sotto i nomi celebrati antichi D’Isi e d’Osiri e d’Oro, e de’ tanti altri 615 Seguaci lor, con mostruose forme E con vani prestigi il cieco Egitto Sì schernir seppe e i sacerdoti suoi, Che andaro ognor sotto ferino aspetto, Anzichè umano, or qua or là cercando 620 I lor vaganti Dei. Da quella peste Non fu immune Israél quando in Orebbe L’oro accattato ei del vitello fuse Nell’immago adorata. Empiezza eguale Vider bentosto Bettelemme e Dana 625 Doppiarsi da quel Re che osò ribelle Paragonare a bue che l’erba pasce, Iéova che lo creò, Iéova che quando Dall’Egitto ei fuggìa, con un sol colpo, In una sola notte, ogni fanciullo 630 Primonato percosse, e a terra stese Ogni muggente Nume. Ultimo venne Quel Belial, di cui più laido Spirto Dal ciel non cadde e più del vizio in preda Sol per amor del vizio: a lui non tempio 635 Sorgea, nè altar fumava; eppur qual altro Soggiornò più di lui fra templi ed are? Ei là sovente d’ogni Dio l’idea Nei sacerdoti cancellò, qual d’Eli Ne’ figli avvenne, che di Dio la casa 640 Di vïolenza e di lascivie empiero. Ei pur le Corti e i gran palagi alberga, E le ricche città passeggia altero, Ove il fragor della licenza oscena, Degli oltraggi e dell’onte, oltre le cime 645 Delle più eccelse torri ascende e suona; E quando della notte il fosco velo Le strade abbuia, allor vagando intorno Escon di Belialle i sozzi figli Ebbri di vino e oltracotanza. Troppo 650 Di Sodoma le vie sepperlo un giorno, E Gabaa il seppe in quella notte impura Che, a distornare un peggior ratto, aprissi L’ospital soglia e una matrona espose. In ordine e possanza eran costoro 655 Primi fra gli altri, di cui troppo fora Lungo il ridir, benchè lontana suoni La fama lor; di Iávana la stirpe, Gli Dei di Ionia che pur Dei tenuti Fur, sebben dopo Cielo e dopo Terra 660 Vantati padri lor, venuti al mondo; Quel Titano di Ciel primiera prole Coll’enorme sua schiatta, al qual fur tolti Dal più giovin Saturno e dritti e regno, E questi che a vicenda egual destino 665 Provò dal figlio che di Rea gli nacque E che di forza il vinse. Ebbesi Giove Usurpator così l’impero. In Creta Da prima e in Ida essi fur noti, e quindi Del freddo Olimpo sul nevoso giogo, 670 Dell’aere medio, lor più alto cielo, Ebber governo, o soggiornar di Delfo Sulla rupe, o in Dodona e pe’ confini Del Dorico terren. Sovr’Adria gli altri Coll’antico Saturno il vol drizzaro 675 Ai campi Esperj e Celtici, e per tutte Le remote vagaro isole estreme. Tutti costoro ed altri molti innanzi S’affollaro a Satán, con occhi pregni Di pianto e chini al suol; ma pur di gioia 680 In essi un fosco raggio insiem traspare, Mentre non anco di speranza uscito Veggono il Duce loro, e sè medesmi Non affatto perduti in mezzo a tanta Spaventevol ruina: a lui non meno 685 Un incerto color rapidamente Passò sul volto, ma l’usato orgoglio Tosto ei riprende, e con parole altere, Pompose sì, ma vane, a poco a poco Ravviva in essi gli abbattuti spirti 690 E le speranze lor scuote e raccende. Quindi impon tosto che al guerriero suono Di trombe e d’oricalchi il gran vessillo S’innalzi: n’ebbe il glorïoso incarco Per suo dritto Azazél, d’alte e superbe 695 Sembianze un Cherubin: dalla raggiante Asta egli tosto disviluppa e stende L’insegna imperïal ch’alto nell’aura Tremolando, qual lucida rifulse Meteora in fosco ciel: splendeanvi in mezzo 700 D’oro e di gemme riccamente inteste L’arme e i trofei Serafici. I sonori Metalli intanto un marzïal clangore Lunge spandeano, a cui sì forte un grido Tutta l’oste mandò che dell’inferno 705 Scosse la vôlta e del Caosse e della Vetusta Notte spaventò l’impero. In un momento diecimila alzarsi Bandiere fur per quell’orror vedute, E nell’aura ondeggiar pinte de’ vivi 710 Color del sol nascente: insiem levossi Di lancie ampia foresta, e d’elmi e scudi Conserta e folta un’ordinanza apparve Profonda, immensurabile. S’avanza In maestoso e fiero aspetto il campo 715 Di tibie e flauti al Dorico concento; Dolce e grave armonia che degli antichi Eroi presti a pugnar gli animi ergea A somma altezza, e non furor, ma fermo Valor deliberato in lor spirava 720 Che temea, più che morte, esser rispinto; Alta armonia che con sublimi note Dalle mortali ed immortali menti Dubbio, paura, angoscia e affanno sgombra O molce almeno. Tacita, secura 725 In sua virtude, in sua congiunta possa Così movea quell’oste al dolce suono Che del bruciante suol l’ardor temprava Sotto i suoi passi dolorosi. In mostra Ecco a un punto s’arresta; orrida fronte 730 Di terribil lunghezza e d’abbaglianti Armi, ai prischi guerrier simile in parte Con aste e scudi in ordinanza, e attenta Stassi ad udir quale al possente Duce Comando piaccia imporre. Egli l’esperto 735 Sguardo dardeggia per le file, e tutta Da un punto all’altro la falange immensa Ne trascorre veloce; il ben disposto Ordine, i volti e le stature eccelse, Solo proprie di Numi, osserva e squadra, 740 E alfin somma il lor numero. D’orgoglio Or più gonfia il suo core e più s’indura; Poichè dal giorno, in cui fu l’uomo creato, Non mai si ragunò tal’oste e tanta Che, di questa al paraggio, assai simile 745 Non fosse a stormo di pimmei pugnanti Di strepitose gru contro uno stuolo. Taccia Flegra i giganti, ed Ilio e Tebe Quella stirpe d’Eroi che d’ambo i lati Pugnò frammista ai parteggianti Numi; 750 Nè favola o romanzo il prode Arturo Da’ suoi Britanni o Armorici campioni Intorno cinto osi membrar (chè troppo Spregevol fora il paragon), nè quanti In Aspramonte o Montalban giostraro, 755 In Damasco, in Marocco o in Trebisonda Cristiani o Saracini invitti Eroi, Nè quei che dalle Maure aduste arene Mandò fra noi Biserta allorchè il Magno Carlo con tutti i Paladini sui 760 In Fontarabia cadde. Incontro a questi Del ciel rivali uman valor è nulla. Pur se ne stanno riverenti al loro Temuto Duce. Alteramente eccelso Ei di persona, e portamento sopra 765 Tutti gli altri torreggia; ancor perduto Non ha tutto il natìo fulgor celeste, E conquiso com’è, pur sempre in lui Un Arcangel si vede, un offuscato Di gloria eccesso. Tale il sol nascente 770 Timidi getta e pallidi pel grave Aere nebbioso i raggi, e tal ei sparge, Se Cintia il vela coll’opposto dosso, Sovra mezza la terra un torbo e mesto Lume che pel timor d’aspre vicende 775 Tien palpitante de’ tiranni il core. Oscurato così, tanto splendea Sopr’ogn’altro Satáno: ancor dell’alte Cicatrici del folgore rovente Solcata avea la faccia, ancor gli stava 780 La cura e ’l duol sulla scaduta guancia; Ma sotto il ciglio l’indomabil core E ’l ponderato orgoglio intento tutto Alla vendetta trasparìa; feroce Ardeva l’occhio suo, pur di rimorso 785 Segni gettava e di cordoglio: ei mira Spiriti innumerabili, già visti In sì diversa sorte, ora dal cielo E da sua luce eterna eternamente Per sua cagion sbanditi e in quegli abissi 790 Spinti e dannati; e suoi compagni furo, Anzi seguaci suoi! pur fidi ancora Quanto gli sono e nella lor sventura Qual mostran fermo generoso core! Così qualor la rovinosa fiamma 795 Del ciel piombò sulla foresta e gli alti Pini e le querce noderose antiche Percosse, diramò, pur coll’arsiccia Sfrondata cima stan gli alteri tronchi Sul divampato suol fissi ed immoti. 800 Egli a parlar s’accinge, onde si curva Vèr lui del campo il destro corno e ’l manco, E in semicerchio co’ più degni Duci Raccolto viene: ciascheduno è muto Per desìo d’ascoltar: ei per tre volte 805 Tentò parlare e per tre volte, ad onta Del proprio scorno, in lagrime proruppe, Ma quali Angel le sparge; alfin mescendo Co’ sospir le parole, ei così disse: O d’immortali Spirti immense schiere, 810 O Forti, o comparabili soltanto Con lui che tutto può, certo d’onore Priva non fu l’alta contesa nostra, Benchè seguìta da un evento atroce Siccome questo loco, ahi! troppo attesta, 815 E quest’orribil cangiamento, ond’io Parlar non oso. Ma qual mai presaga Mente sublime e dagli eventi instrutta Temer potea che tal di Numi unito Esercito, che forze a queste eguali, 820 Sì intrepide, sì ferme, esser disfatte Potesser mai? Chi crederà che ancora Abbattuto, com’è, stuol sì gagliardo, Di cui l’esilio ha fatto vòto il cielo, Col suo valor là risalir non debba 825 E i suoi riposseder perduti seggi? Tutta l’oste del ciel ne chiamo in prova; Se discordanza di consigli o rischio Da me schivato le speranze nostre Ha rovesciate. Ma colui ch’or regna 830 Lassù Monarca, infino allor sedea Sul trono suo qual chi securo appieno Per vecchia stima, uso o consenso il tiene, E piena pompa del suo regio stato Facendo, intanto il suo poter celava. 835 Questo a tentar c’indusse, e cagion questo Fu di nostra ruina. Ormai sua possa Noi conosciamo e nostra possa a un tempo, Onde nè provocar guerra novella, Nè provocati paventarla. Il meglio 840 Ci resta ancor: dove il poter non giunse, L’arte vi giunga e ’l ben oprato inganno; E apprenda ei pur da noi che sol da forza Vinto nemico è per metà sol vinto. Dello spazio nel grembo ermo ed immenso 845 Novelli mondi sorger ponno, e in cielo Fama correa ch’egli in pensier volgesse Crearne un altro in breve, ed una stirpe Locare in esso a lui gradita e cara Quanto del cielo i più diletti figli. 850 Ivi a spïar, se non ad altro, in prima Uscirem noi, là forse o altrove ancora: Chè in servitù no ritener non debbe Chiusi quaggiù questa infernal vorago Spirti celesti e l’Erebo coprirli 855 Delle tenebre sue. Ma in pien consiglio Questi pensier matureransi: or fermo Stia che vana è di pace ogni speranza Per chi servir, sottomettersi non voglia; E chi vorrallo? Aperta guerra dunque 860 O ascosa si risolva, e guerra eterna. Disse, e quei detti ad approvar, dal fianco De’ forti Cherubini ecco ad un punto Più milïon di sguainati brandi L’aria fendèro e mandàr fiamme e lampi 865 Onde lontan rifulse il bujo regno Per ogni intorno. Di furor, di rabbia Tutti contro l’Eterno han gonfio il core, E con bestemmie e grida verso il cielo Lor disfide lanciando, i risonanti 870 Scudi percuoton colle spade e un cupo Destan di guerra assordator fracasso. Sorgea di là non lunge un piccol monte Che dalla cima squallida eruttava Rote di fumo e fiamme, e in tutto il resto 875 D’una lucente gromma era coverto: Non dubbio segno che celato in grembo, Per opera del zolfo, un ricco ei serba Metallico tesoro. Ivi ad un tratto Di loro un folto stuol distese il volo, 880 Quale d’asce e di marre armata schiera Di guastatori intrepidi precorre, Ad iscavar trinciera, a innalzar vallo, Un esercito regio. Era lor Duce Mammon, di cui Spirto più vil non cadde 885 Con lor dal cielo: anco lassuso ei sempre Tenea gli sguardi ed i pensier confitti Sul ricco pavimento, e più quell’oro Da lor calcato gli rapiva il core D’ogni bëante visïon celeste. 890 Ei fu che all’uom da pria spirò l’avara Sete delle ricchezze, esso gli apprese A squarciare e predar con empia mano Della terra le viscere, ed in luce Quei tesori a recar che meglio stati 895 Foran là dentro eternamente ascosi. Tosto la torma sua larga ferita Aprì nel monte, e d’ôr fulgidi brani Ne trasse fuor. Niun meraviglia prenda Che quel metallo nell’inferno abbondi; 900 A qual altro terren meglio conviensi Il prezïoso tosco? Or qui chi vanta Mortali cose, e di Babelle e Menfi Meravigliando le grand’opre estolle, Vegga quanto sia lieve ad empi Spirti 905 Solo in un’ora superar quegli alti Per arte umana o per umana forza Monumenti famosi, eretti appena In lunghe età da innumerabil braccia E da sudor perenne. Ivi d’appresso 910 Sul piano, in molte preparate celle Che sotto avean di liquefatte fiamme Rivi sgorganti dal bollente lago, Una seconda affaccendata schiera Con stupendo lavor distempra e scevra 915 La metallica massa, e ne dischiuma Tutta l’impura feccia. Un terzo stuolo Colla prestezza stessa entro il terreno Varie forme compose e per arcani Canali empiè delle bollenti celle 920 Le varie cavità. D’un’aura il soffio Nell’organo così per molte file Di canne scorre, e vario suon respira. A guisa di vapor che in alto saglia, Ecco repente dal terreno alzarsi, 925 Di tempio in forma, un edificio immenso, Al suono di soavi sinfonie E dolci canti. Doriche colonne, D’aureo architrave sotto il peso, intorno Splendono in ordin lungo: ornati i fregi 930 E le cornici con mirabil’arte Son di sculture e di rilievi; è il tetto Solid’oro intagliato. Unqua non vide Magnificenza egual l’Eufrate e il Nilo, Quando de’ Regi loro e de’ lor Numi 935 I palagi ed i templi ergeano a gara Più eccelsi e vasti, e di ricchezza e lusso Contendevan tra lor. Compiuta alfine Sovra le salde basi immobil sorge La maestosa mole; e l’énee porte 940 Repente spalancandosi, le interne Splendide sale immense e il liscio e terso Pavimento il sorpreso occhio discopre. Dal curvo tetto per sottile incanto Pendean stellati mille lampe e mille, 945 In cui Nafta ed Asfalto una sì viva Luce nudrìan che un ciel pareva l’inferno. Meravigliando entra la folla, e questi Loda il lavor, quei l’architetto in cielo Egli era illustre già per molte eccelse 950 Edificate moli, ove soggiorno Scettrati Angeli fean che il Re supremo Al governo esaltò degli ordin vari Di sue celesti rifulgenti squadre. Nè senza nome o senza onor divini 955 Andò per Grecia e per Ausonia, dove Vulcan fu detto: ivi che Giove irato Via lo scagliò dai cristallini merli Favoleggiossi: dal nascente sole Alla metà del dì, da questa infino 960 Alla rorida sera, un lungo estivo Giorno durò precipitando, e allora Che il sol cadea nell’onde, in Lenno, antica Isola dell’Egeo, piombò simile A divelta dal ciel corrusca stella. 965 Favole e sogni! Ei da gran tempo innanzi Con questa cadde insiem ribelle turba, Nè punto gli giovâr le alte nel cielo Costrutte torri, nè sottile ingegno; Chè capovolto con sua ciurma industre 970 Giù negli abissi a fabbricar fu spinto. Al suon di trombe e con gran pompa intanto Per comando sovran gli alati Araldi Vanno per tutta l’oste alto gridando Che in Pandemonio, la superba Reggia 975 Del gran Satáno e de’ suoi Pari, in breve Solenne s’aprirà Consesso augusto; E colà tosto da ciascuna schiera, Da ciascuna falange i più distinti Per dignitade o per sovrana scelta 980 Sono appellati. Là traggon repente Tutti costor da nobile seguìti Corteggio innumerabile. Ogni via, Ogni atrio capacissimo, ogni porta Gran calca ingombra e stringe, e l’ampia sala 985 Tutta n’ondeggia e bolle, ancor che pari A quei recinti ella in grandezza fosse, Ove arditi campioni in sella armati Presentarsi eran usi, e innanzi al seggio Del Soldano appellare il fior de’ prodi 990 Pagani Cavalieri a mortal zuffa O a correr lancia. Della gente inferna Coverto è il suol, l’aria n’è ingombra, e tutta Stride divisa dai fischianti vanni. Soglion così le pecchie, allor che il sole 995 Riede col Tauro, all’alveare intorno Versar lor folta giovinetta prole In densi gruppi, che su i freschi fiori E le novelle erbette rugiadose Van poi volando e rivolando, o sovra 1000 Liscia e testè di lor ceroso visco Spalmata panca che fuor sporge e quasi Del paglieresco lor castello è il borgo, S’aggiran premurose e l’alte cure Conferiscono del regno. Era simile 1005 Quivi di tanti Spirti il popol denso A cui mancava il loco, allor che diessi Un cotal segno, ed (oh stupor!) coloro Che in lor mole testè vincean la vasta Terrestre prole gigantéa, li vedi 1010 De’ più piccoli Nani a un tratto farsi Più piccioletti ancora, e breve stanza Chiuder stormo infinito. A lor somiglia Quell’umil stirpe di Pimmei (se narra La fama il vero), che dell’Indie estreme 1015 Vive oltra i monti, o quei Folletti Spirti Che in notturni tripudi o vede o sogna Vedere appresso una foresta o un fonte Il tardo peregrin, mentre sul capo Dritto gli pende della luna il raggio 1020 Che più vicino a noi ruota il bicorne Pallido carro: a lor carole e feste Stan quelli intenti: a lui molce l’orecchia Dolce concento, e fra timore e gioia Gli balza il cor. Così quei Spirti inferni 1025 Strinser le membra immani in brevi forme, E benchè tanti, in quella regia sala Tutti capean, ma lunge a dentro i Prenci De’ Cherubini e Serafini, in guisa Di mille Semidei, tuttor serbando 1030 L’alte fattezze prime, in chiusa eletta Parte e in frequente e pien Senato, assisi Sovr’aurei seggi luminosi stanno. Si fe’ breve silenzio, e letto in pria L’invito, aprissi il gran Concilio orrendo.

Il Paradiso perduto   (titolo originale: Paradise Lost ), pubblicato nel 1667 , è il poema epico  in versi sciolti (blank verse ) di John Milton  che racconta l'episodio biblico della caduta dell'uomo : la tentazione di Adamo  e Eva  a opera di Satana  e la loro cacciata dal giardino dell'Eden .

Fu pubblicato per la prima volta nel 1667 , in dieci libri; seguì una seconda edizione, del 1674 , divisa questa volta in 12 libri (in imitazione della suddivisione dell'Eneide  di Virgilio ) con delle piccole revisioni nel testo e l'aggiunta di una nota sulla versificazione.

Il poema tratta il racconto ebraico  - cristiano  - islamico  della caduta dell'uomo: la tentazione di Adamo  ed Eva  da parte di Lucifero , e la loro cacciata dal Giardino dell'Eden . Il fine di Milton, espresso nel primo libro, è "svelare all'uomo la Provvidenza eterna " (I, 26) e spiegare il conflitto tra tale Provvidenza eterna e il libero arbitrio.

Il personaggio principale del poema è Satana , l'Angelo caduto . Letto attraverso un prospettiva moderna, a taluni può sembrare che Milton rappresenti Satana in modo positivo e compassionevolmente, come un essere ambizioso e orgoglioso che sfida Dio Onnipotente , suo tirannico creatore, e muove guerra contro il paradiso , per esser poi sconfitto e fatto precipitare in terra. Per meglio dire, William Blake  (1757 -1827 ) grande ammiratore di Milton e illustratore di tale poema epico, disse di Milton che "era un vero poeta, e stava dalla parte del diavolo senza saperlo ".

Vicenda.

La storia è suddivisa in 12 libri, contro i 24 dei poemi omerici dell'Iliade  e dell'Odissea . Il libro più lungo è il IX, con 1189 versi, mentre il più breve, il VII, consta di 640 versi. Ciascun libro è preceduto da un sommario, intitolato L'Argomento . Il poema, seguendo la tradizione epica, inizia in medias res ("in the midst of things "), essendo poi l'antefatto esposto nei libri V-VI...

L'opera di Milton narra due vicende: quella di Satana e quella di Adamo ed Eva. Quella di Satana (o Lucifero) rende omaggio agli antichi poemi epici  di argomento guerresco. Inizia in medias res, dopo che Lucifero e gli altri angeli ribelli sono stati sconfitti e scaraventati da Dio nell'Inferno. Nel "Pandemonio ", Lucifero deve impiegare le sue abilità retoriche per far ordine tra i suoi seguaci; è affiancato dai suoi fedeli tenenti Mammona  e Belzebù . Alla fine della discussione, Satana si offre volontario per avvelenare la Terra, appena creata. Affronta da solo i pericoli dell'Abisso in un modo che ricorda molto quello di Ulisse  e di Enea  dopo i loro viaggi nelle regioni ctonie dell'Oltretomba.

L'altra vicenda è fondamentalmente diversa, una nuova sorta di epica: quella "domestica ". Adamo ed Eva vengono presentati per la prima volta, nella letteratura cristiana , come dotati di attività anche prima di essere macchiati dal peccato: essi hanno passioni, personalità e sesso . Satana tenta Eva con successo, approfittando della sua vanità e ingannandola con la sua dialettica; Adamo, vedendo che Eva ha peccato, commette coscientemente il medesimo errore, mangiando anche lui il frutto proibito. In tal maniera, Milton ritrae Adamo come un personaggio eroico, ma anche come un peccatore ancor più grande di Eva. Dopo aver compiuto il peccato originale, essi hanno ancora caratteristiche sessuali, ma ora con una nuova sorta di sensualità che prima non possedevano. Dopo aver preso coscienza del loro errore, quello appunto di consumare il frutto  dell'Albero della conoscenza , Adamo ed Eva prendono a lottare. Ad ogni modo, le suppliche di Eva ad Adamo fanno sì che i due si riconcilino. Adamo intraprende un viaggio visionario con un angelo , nel quale è testimone degli errori dell'uomo e del Diluvio universale , ed è incommensurabilmente rattristato dal peccato  che hanno commesso attraverso l'assunzione del frutto. Ad ogni modo, gli viene anche mostrata la speranza, e cioè la possibilità di redenzione, attraverso la visione di Gesù  Cristo. Essi, successivamente, vengono banditi dall'Eden , e un angelo aggiunge che qualcuno potrà trovare "un paradiso dentro di sé ". Adamo ed Eva, ora, hanno un rapporto più distante con Dio, il quale è onnipresente ma invisibile, a differenza del tangibile Padre nel Giardino dell'Eden.

Personaggi principali.

Satana.

Inizialmente conosciuto come Lucifero, egli era un orgoglioso angelo che non riusciva a pensare a se stesso uguale agli altri angeli. Il giorno in cui Dio nominò il Figlio suo successore al potere, Lucifero si ribella a causa della propria invidia, prendendo con sé un terzo dell'intera popolazione di angeli del Paradiso. Egli è enormemente pieno di sé, e sicuro di poter abbattere Dio; le sue parole sono sempre fraudolente e ingannevoli. Assume varie forme nel corso della storia, le quali sono il riflesso della sua decadenza morale e razionale. Prima è un angelo caduto di considerevole levatura; successivamente un umile cherubino ; un cormorano ; un rospo ; e infine un serpente . Tutto ciò è la raffigurazione di un'incessante attività intellettuale, senza alcuna abilità di pensare adottando un'ottica morale.

Adamo ed Eva.

Adamo è forte, intelligente e razionale, nato per la meditazione e la prodezza, e prima della caduta è perfetto esattamente come ogni essere umano potrebbe essere. È però caratterizzato anche da imperfezione, dacché talvolta s'abbandona a imprudenze e ad atteggiamenti irrazionali. Come conseguenza della caduta, la sua ragione pura e il suo intelletto vengono da lui persi, e l'uomo non è più capace di conversare alla pari con gli angeli (come fece con l'Arcangelo Raffaele ), ma è come unilaterale (come si vede, con l'Arcangelo Michele , dopo la caduta). Il suo punto debole è l'amore  per Eva. Egli confida a Raffaele che la sua attrazione per lei è travolgente, qualcosa che la sua ragione non è in grado di vincere. Dopo che Eva si nutre dall'Albero della Conoscenza, egli decide di compiere lo stesso atto, avendo realizzato che se lei è votata a ciò, egli deve seguirla nel suo destino infausto, per non perderla - anche se ciò significa disobbedire a Dio.

Eva è la madre di tutta l'umanità, inferiore ad Adamo nelle facoltà intellettive (perché l'uomo è considerato più vicino a Dio rispetto alla donna) e dotata di tenerezza e dolce grazia affettiva . Ella lo supera nella bellezza, per la quale essa stessa s'innamora della propria immagine al rimirarla nel riflesso in uno specchio d'acqua (qui v'è un richiamo al mito greco di Narciso ). È proprio la sua vanità a essere sfruttata da Satana per persuaderla a nutrirsi dall'Albero della Conoscenza, per mezzo di lusinghe. Eva è chiaramente intelligente, ma a differenza di Adamo non è desiderosa di apprendere, essendo infatti assente nella conversazione di Adamo e dell'Angelo Raffaele nel libro VIII, e nelle visioni di Adamo presentate da Michele nei libri XI e XII. Eva non crede che sia suo compito andar in cerca della conoscenza in modo indipendente; preferisce invece che Adamo gliela trasmetta solo in un secondo momento. Il primo caso in cui evade dalla sua passività è quando s'avventura fuori da sola e finisce con l'ingerire il frutto proibito.

Dio.

Il Dio miltoniano è onnisciente, onnipresente e onnipotente: ciò sta a dire che egli ha prescienza degli eventi futuri, però non predestina - cosa che negherebbe interamente l'idea del libero arbitrio. La difficoltà nell'interpretazione del personaggio di Dio nel Paradiso Perduto  è che è più una personificazione di idee astratte che un essere reale; egli è incarnazione della pura ragione (infatti, vi è un'interpretazione che vede in Satana la passione che combatte la ragione, facendone un'anticipazione dell'eroe romantico). Egli permette che il male accada, ma crea il bene dal male. Il critico letterario William Empson (1906 -1984 ) ha chiarito molti dubbi dei lettori sul Dio di Milton nella sua influente opera, che porta lo stesso nome.

Il Figlio.

Il Figlio è la manifestazione di Dio nell'azione, il collegamento fisico tra Dio il Padre e la sua creazione, formando insieme a lui un Dio perfetto e completo. Personifica l'amore e la compassione e decide spontaneamente di morire per l'umanità, per redimerla, mettendo in luce la sua dedizione e il suo altruismo. Attraverso la sua forma umana, il Figlio verrà fatto discendere da Adamo, per mezzo del quale tutti gli uomini furono morti; ma egli sarà un secondo Adamo, per mezzo del quale tutti gli uomini saranno salvati. Nel Giorno del Giudizio , il Figlio apparirà nel cielo, avrà chiamato a raccolta da ogni angolo del mondo tutti, e condannerà i peccatori all'Inferno. L'ultima visione di Adamo, nel libro XII, è il sacrificio del Figlio come Gesù.

WOOD ENGRAVING - GRAVURE SUR BOIS - HOLZSTICH - XILOGRAFIA.

XILOGRAFIA  ORIGINALE  (TIRATURA  D'EPOCA)  ESTRATTA  (TOLTA)  DALL'OPERA: "IL  PARADISO  PERDUTO  DI  GIOVANNI  MILTON",  TRADOTTO  DA  LAZZARO  PAPI,  CON  ILLUSTRAZIONI  DI  GUSTAVO  DORE';  MILANO, STABILIMENTO  DELL'EDITORE  EDOARDO  SONZOGNO,  1881.

L'INCISIONE  E'  UNA  TAVOLA  A  PIENA  PAGINA, CON  MARGINI  BIANCHI  E  RETRO  BIANCO, HA  PIU'  DI  135  ANNI  ED  E'  IN  BUONO  STATO,  E' BELLISSIMA,  ABBASTANZA  NITIDA,  MOLTO PITTORESCA  E  SUGGESTIVA.  MISURE  PAGINA  cm  23,5 x 34,  MISURE  PARTE  INCISA  (LA  SOLA  IMMAGINE)  cm  20 x 25  CON  MARGINI  BIANCHI,  MISURE  CON  PASSEPARTOUT  cm  32 x 39,  RETRO  BIANCO.

 

L'INCISIONE VIENE FORNITA COMPLETA DI UN PASSEPARTOUT DI TIPO PROFESSIONALE A SMUSSO, DI COLORE AVORIO, CHE TRASFORMA L'IMMAGINE IN UN PEZZO UNICO DA COLLEZIONE.

 

 

ATTENZIONE!  QUESTA é UN'ASTA DEDICATA AGLI APPASSIONATI DI STORIA LOCALE, DI STORIA DEGLI USI E DEI COSTUMI DELLE GENTI ITALICHE, DI STORIA DELLE ARTI E DEI MESTIERI, AGLI AMATORI D'ARTE  E DEL BELLO IN TUTTE LE SUE MANIFESTAZIONI E AI COLLEZIONISTI DI PICCOLO ANTIQUARIATO CARTACEO: CHI NON HA DIMESTICHEZZA CON QUESTO GENERE DI COSE é PREGATO DI NON FARE OFFERTE O COMUNQUE DI CHIEDERE PREVENTIVAMENTE MAGGIORI INFORMAZIONI.

 

DI COSA SI TRATTA?  Per essere il più chiaro possibile (per i non esperti):  SI TRATTA DI UNA PAGINA ORIGINALE DI UN LIBRO ORIGINALE DEL 1887; QUESTA PAGINA ORIGINALE DEL 1887 E' STATA TOLTA DAL LIBRO ORIGINALE DEL 1887 ED E' STATA INSERITA DENTRO UN PASSEPARTOUT DI TIPO PROFESSIONALE A SMUSSO (CON IL TAGLIO INTERNO NON DIRITTO MA SMUSSATO, DI SBIECO), PASSEPARTOUT CHE E' STATO TAGLIATO SU MISURA APPOSTA PER L'IMMAGINE XILOGRAFICA CONTENUTA IN QUESTA PAGINA, IN MODO DA POTERLA VALORIZZARE IL PIU' POSSIBILE E PER CONSENTIRNE LA SUCCESSIVA INCORNICIATURA (CHE E' CONSIGLIABILE: L'OGGETTO E' PRONTO PER ESSERE INCORNICIATO).

 

Insieme a questa incisione riceverete GRATUITAMENTE un piccolo CERTIFICATO ARTISTICO DI GARANZIA,  con l'indicazione di tutte le notizie in mio possesso relative all'opera acquistata.

ATTENZIONE, SI TRATTA DI UN'IMMAGINE INGRANDITA, PER FARE VEDERE  IL PIU' POSSIBILE I DETTAGLI DELL'OGGETTO: LE DIMENSIONI REALI  SONO PIU' PICCOLE E SONO RIPORTATE NELLA DESCRIZIONE DELL'OGGETTO IN MODO PRECISO ED INEQUIVOCABILE: AL MEZZO CENTIMETRO!!!      

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  • Condition: Oggetto usato: è una stampa antica che ha più di cento anni, quindi non può essere un oggetto nuovo (se lo fosse sarebbe un falso), é un oggetto usato.

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