Eva coglie la Mela. Adamo. Serpente tentatore. Milton: Paradiso Perduto. 1881

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DIDASCALIA: RATTO  S'INVOLA  DENTRO  AL  BOSCO  INTANTO IL  SERPE  REO,  NE'  GIA'  VI  BADA  TUTTA AL  NOVELLO  SAPOR  LA  DONNA  INTESA. LIBRO  IX,  v.  994 - 996. AUTORE: Gustave  Doré. *  RIPORTO  INTEGRALMENTE  IL  LIBRO  IX  DELL'OPERA,  A  SCOPO  DIDATTICO-DIVULGATIVO. CHI  NON  E'  INTERESSATO  A  LEGGERE  IL  POEMA,  PUO'  SALTARE  I  VERSI  E  LEGGERE  LA  DESCRIZIONE  DELLA  XILOGRAFIA.

Satáno, avendo percorsa la terra con meditato inganno, ritorna di notte in forma di nebbia nel Paradiso, e s’insinua nel serpente che dorme. Adamo ed Eva al sorgere dell’aurora escono alle usate loro occupazioni. Eva propone al consorte di dividerle fra loro e che ciascuno lavori da sè a parte. Adamo vi si oppone, adducendo il suo timore che il nemico, del quale sono stati avvertiti, non venga a tentarla mentr’ella sarà sola. Eva, sdegnandosi perché egli non la crede né assai circospetta né assai ferma, persiste nel suo primo pensiero e vuol far prova di sua virtù. Adamo finalmente s’arrende. Il serpente la trova sola, le si accosta con destrezza, la rimira con meraviglia, le parla lusinghevolmente, innalzandola con le lodi sopra tutte le altre creature. Eva meravigliata nell’udirlo parlare, gli dimanda com’egli abbia acquistata la voce e la ragione umana che non ebbe fin allora. Il serpente le risponde aver ottenuto questi vantaggi pel frutto d’un certo albero ch’è nel giardino. Eva il prega di condurla a quell’albero, e trova ch’esso è quello della Scienza, a lei e ad Adamo vietato. Il serpente con molte astuzie e argomenti la induce alfine a mangiar delle frutta di quello: essa le trova squisite, e delibera per qualche tempo, se ne farà parte al suo sposo o no: finalmente gli porta un ramo carico di quei pomi. Adamo rimane attonito e costernato, ma per eccesso d’amore, risolve di perir secolei, e cercando estenuar la colpa, mangia anch’egli del frutto. Effetti di esso in ambedue. Eglino cercano di coprir la loro nudità: la discordia entra tra loro, e si accusano e rimproverano scambievolmente.

  Non più di Dio che sulla terra scenda Facil, benigno all’uom, non più m’è dato D’Angelo favellar che al desco stesso Coll’uom s’assida, ospite, amico, e in dolce, 5 Amorevol colloquio i ricchi doni Con lui divida della terra. Or denno Di triste note risonare i carmi, E raccontar la rotta fè, la turpe Diffidenza dell’uom, le calpestate 10 Celesti leggi, dell’offeso Nume Il giusto sdegno, e la feral sentenza Che il mondo empiêr di guai. La colpa or viene, Vien seco indivisibile la morte, E forieri di morte angoscia e pianto: 15 Dolente sì, ma più sublime tema Di quel furor che per tre volte intorno Spinse ai muri di Troia il fero Achille Sul fuggente nemico; assai più grande Dello sdegno di Turno allor che tolta 20 Gli fu la sposa, e più che gli odj acerbi Di Nettuno e Giunone, ond’ebber tanto Affanno i Greci e di Ciprigna il figlio. Sì, ben più grande è l’argomento mio, Se la Musa del ciel che mi protegge, 25 Darammi stil conforme, ella che suole, Nel notturno silenzio a me scendendo, Dettare od inspirare i pronti versi Non implorata, fin dal dì che prima Dopo lungo indugiare io scelsi alfine 30 L’alto subietto al canto. Armi e guerrieri, Ch’altri stimò finor d’eroica tuba Degna materia sol, l’ingegno mio Destar non sanno, e per natura io sdegno Di finti cavalieri in finte pugne 35 Nojosamente raccontar le stragi, Mentre miglior fortezza in faccia agli empj, Crudi tiranni di tormenti e morte Sprezzatrice magnanima e costante Celebrator non ha. Corse ed arringhi 40 Cantin pur gli altri, effigïati scudi, Ricche divise, e per gran fregi e barde D’argento e d’oro sfolgoranti intorno Cavalieri e cavalli; indi le vaste Adorne sale, i nobili conviti 45 E ’l pronto stuol di siniscalchi e paggi; Vulgare e bassa impresa, ignobil arte, Non qual di vate o di poema a dritto Può la fama eternare. A me, che ignaro Son di tai studj e non li curo, innanzi 50 Altro argomento sta per sè bastante Ad innalzare il nome mio, se il peso Degli anni e ’l freddo sangue e ’l freddo clima Al disegnato vol deboli e manche Non mi fan l’ali, e ben potrianlo, ov’io 55 Fossi dell’opra il solo autor, non quella Che a notte nell’orecchio a me l’arreca. Già s’era il sol nell’ocean nascoso, Già diffondeva un fioco e dubbio lume Espero sulla terra, e dal confine 60 D’un emispero all’altro il fosco ammanto La notte distendea, quando Satáno Che al minacciar di Gabrïello s’era D’Eden fuggito, or fatto ancor più scaltro In suoi disegni iniqui, e infellonito 65 Ognora più dell’uomo alla ruina, Sprezzando ogni più grave e certo danno Che a lui sovrasti, impavido ritenta La prima via. Fuggì di notte, e, scorsa Tutta la terra, della notte al mezzo 70 Tornò, la luce ognor cauto schivando Per tema d’Urïel che già nel primo Entrar suo lo scoperse e dienne avviso Ai Cherubin custodi. Indi cacciato, Pien di angoscia e di rabbia egli per sette 75 Continue notti andò vagando; il cerchio Dell’equinozio trapassò tre volte, E quattro volte il carro della notte Da un polo all’altro. Nell’ottava alfine Ei fe’ ritorno, e per un varco opposto 80 De’ Cherubini alle veglianti ascolte Trovò furtiva, e non sospetta via. Eravi un loco, onde più traccia alcuna Or non riman (benchè il peccato oprasse Tal cangiamento e non il tempo), dove 85 Del Paradiso alle radici il Tigri S’ingolfava sotterra, e quindi appresso L’arbor di Vita in larga fonte all’aura Uscìa di nuovo in parte. Ivi col fiume S’incavernò Satáno, e su con esso 90 Fra ’l nebbioso vapor poscia risalse, E investigò dove celarsi. Ei tutta Avea cerca la terra e tutto il mare Oltre il Ponto salendo, oltre le pigre Meotich’onde ed oltre l’Obio estremo, 95 E giù dell’Austro agli ultimi confini Scendendo poscia: inver l’Esperie piagge Ei quindi scorse di Panáma al seno, E quindi al suol che l’Indo e ’l Gange inonda. L’Orbe intero così spïando ei venne 100 Con sollecita cura e a parte a parte Le creature tutte, in sè librando Qual d’esse meglio alle sue trame adatta Esser potesse, e alfin più scaltro il serpe Di tutte giudicò. Fra tutte quindi, 105 Dopo un lungo ondeggiar fra i suoi pensieri, Lui di sue fraudi atto strumento elesse, E in lui d’entrare e al più sagace sguardo Di celar s’avvisò le perfid’arti: Chè ogni scaltrezza in chi sì astuto nacque, 110 Stata sarebbe di sospetto scevra, Ma in altre belve, d’infernal possanza, Che in loro oprasse oltre il brutal costume, Dare indizio poteva. Ei sì risolse, Ma prima lo scoppiante interno duolo 115 Prese a sfogar così: - Quanto se’ vaga, O terra, e al ciel simil, se anzi nol vinci In tua beltà, degno di numi albergo Più che dell’uomo, opra seconda, in cui Forse il Fattor le prime idee corresse 120 (Poichè qual Dio crear vorrebbe il peggio Dopo il miglior?), terrestre ciel che intorno Hai nobil danza di rotanti cieli Che sol per te, lume aggiungendo a lume, Le ufizïose loro eteree fiamme, 125 Siccome appare, accendono, e nel seno Ti vibran tutta de’ lor raggi a prova L’alma virtù! Qual d’ogni cosa è centro Quel Nume in cielo e tutto a sè rivolge, Tal sei tu pur di queste sfere il centro, 130 Chè tutte in sè non già, ma in te fan mostra Di quell’igneo poter che informa e nudre L’erbe e le piante, e agli animali imparte Diversi gradi di più nobil vita, Moto, senso, ragion, che tutti accolti 135 Son poi nell’uomo. Oh con qual gioia scorsa Tutt’intorno io t’avrei, se gioia alcuna Entrare potesse in me! Qual vario sempre Giocondo aspetto! or monti or valli or fiumi Or selve or piani or terra or mare or liti 140 Incoronati di foreste, rupi, Antri, spelonche! Ma rifugio o posa In loco alcun non io già trovo, e quante Più delizie ho d’intorno, in cor più sento, Come in sola d’affanno amara fonte, 145 Addoppiarsi i tormenti. In me veleno Fassi ogni gioia, e in cielo, in cielo ancora Sarìa peggior la sorte mia. No, starmi Nè qui desìo nè colassù, se domo Pria non giungo a veder quel re superbo. 150 Nè già scemar la mia miseria ho speme Per quel ch’io cerco; al par di me dolente Sol di far altri io spero, e peggio ancora Seguane poi per me. Sparger ruine Di questo cor feroce è il sol conforto; 155 E se per forza o fraude io traggo alfine Nel precipizio quei, per cui create Fur queste cose tutte, il tutto ancora Che nel bene e nel mal con lui s’unisce, In un pari destino andrà ravvolto. 160 Cada egli dunque, e furïoso scorra Per ogni dove l’esterminio. Il vanto Io solo avrò fra le possanze inferne D’aver disfatto in un sol dì quel ch’opra Fu di sei giorni e di sei notti intere 165 Per lui ch’è detto Onnipossente; e forse Gran tempo innanzi ei meditolla ancora, O l’ebbe almen da quella notte in mente, In cui scior seppi da servaggio indegno La metà quasi dell’angelic’oste, 170 E assai men folta colassù ridussi La turba adoratrice. Egli, vendetta Bramando, e il danno riparar sofferto, Sia che a crear nuovi Angeli l’antica Sua scemata virtude inabil fosse 175 (Seppur questi da lui l’origin hanno), Sia per maggior nostr’onta, empier le nostre Sedi risolse d’un terrestre fango, E l’uom da tanta sua viltade ergendo, De’ bei doni del ciel, di nostre spoglie 180 Adornarlo, arricchirlo. Il suo decreto Ad effetto recò, l’uom fe’, per lui Quest’Universo splendido costrusse, Gli diè la terra per sua sede, in essa Dichiarollo signore, ed, oh vergogna! 185 L’ale avvilì degli Angeli pur anco Al suo servigio, e posegli d’intorno Di fulgidi ministri ascolte e ronde. A ingannar di costor la vigil cura Forza mi fu penetrar qui fra i ciechi 190 Vapor notturni ascoso, e qui mi fia Ora gran sorte il ritrovar fra queste Macchie e cespugli addormentato il serpe, Fra le cui torte spire io celi e copra Me stesso e le mie frodi. Oh turpe, oh strano 195 Avvilimento! Io che pugnai co’ Numi Per ergermi sovr’essi, or son costretto Dentro il loto a ravvolgermi e la bava D’un bruto e questa mia divina essenza Che già del cielo i primi onori ambìa, 200 Ad incarnare, ad imbestiar! Ma dove, Di vendetta il desìo dove non mena? A che non scende ambizïon? Quant’alta È più la meta ov’ella aspira, è forza Che tanto più s’abbassi e, prima o poi, 205 Soggiaccia ad ogni cosa indegna e vile. E tu, vendetta, ancor che dolce in pria, Come presto ti cangi, e il tosco amaro In te stessa rivolgi! Ebben, nol curo; Purchè a ferire ed atterrar tu giunga, 210 Se non giungesti a più sublime scopo, Questo del mio livor secondo oggetto, Quest’uom sì caro al ciel, questo novello Figlio del suo dispetto, opra di fango Che tal formata fu solo per nostro 215 Scherno maggiore. E non sarà ch’io renda Odio all’odio, onta ad onta, oltraggio a oltraggio? Così dicendo, come nebbia oscura Che terra terra striscia, ogni palude, Ogni boschetto andò spiando, e il serpe 220 A trovar non tardò che al sonno in preda Giaceasi avvolto in raddoppiati giri, E in mezzo ad essi riposava il capo D’astuzie pieno. Egli innocente ancora Non sotto l’orrid’ombre e in cupe tane, 225 Ma in grembo all’erba tenera dormìa Senza timore e non temuto. Entrógli Per le fauci Satán, tacito e leve Del cerebro e del cor le intime vie Gli penetrò, gli scorse, e aggiunse il lume 230 D’intelletto e ragione al brutal senso; Ma non turbógli il sonno, e il nuovo albòre Stette là chiuso ad aspettare. Or quando In Eden cominciò la sacra luce A scintillar sugli umidetti fiori 235 Esalanti l’incenso mattutino, Mentre quanto germoglia e quanto spira Dalla grand’ara della terra innalza Mute laudi al gran Fabro e odor soavi, Fuor se n’uscì l’umana coppia, e il suo 240 Vocal, divoto ossequio al muto Coro Unì dell’altre creature. I freschi Olezzi del mattino e l’aure molli Va poi godendo insieme e divisando Come possa in quel giorno affrettar l’opra 245 Che troppo per due soli in quel sì largo Terren cresceva, e al suo consorte in pria Eva sì prese a dir: - Ben possiam noi Questo giardin rassettar sempre, o caro, Sempre le piante e l’erbe e i fior disporne, 250 Nostro sì dolce incarco: in fin ch’aìta Non ci recan più mani, invan represso Sotto il nostro lavor, più sorge ognora Il gran rigoglio lor. Quanto nel giorno S’opra da noi, questi arboscei spogliando 255 Di troppi rami e ambizïose fronde Od acconcio sostegno a lor giugnendo, Tutto è perduto, e, nello spazio breve D’una o due notti, la natura prende Col suo vigor l’opere nostre a scherno; 260 Tutto a imboschir ritorna. Il tuo consiglio Proponi dunque, o ciò che in mente or vienmi Non ti spiaccia d’udir. Fra noi divisi Sieno i lavori: ove il desìo ti guida O il bisogno è maggior, tu vanne, e a questo 265 Boschetto intorno il caprifoglio avvolgi, O là dirigi l’edera seguace Ove meglio s’arrampichi e s’infrondi. Io colà fra quei mirti e quelle rose Fino al meriggio le mie cure intanto 270 Impiegherò; chè, mentre uniti all’opra Passiam così l’un presso all’altro i giorni, Qual meraviglia se in sorrisi e sguardi Si perdon l’ore, e nuovi obietti sempre A nuovo ragionar materia danno, 275 Talchè langue il lavor, sebbene impreso Di buon mattino, e della cena intanto, Che non abbiam mertata, il tempo arriva? - O amata e sola mia compagna - a lei Dolcemente così risponde Adamo - 280 O fra quanto creò l’eterna mano Oltr’ogni paragone a me più cara, Al tuo provvido avviso, a questa cura D’affrettare il lavor che Dio c’impone, Come negar potrei debite lodi? 285 Quale in donna esser può studio più bello Che il domestico bene, e all’opre oneste Il consorte eccitar? Pur sì severa, No, Dio non fe’ del faticar la legge, Che necessario od opportun ristoro 290 A noi si vieti, o di colloquio, dolce Nudrimento dell’anima, o di sguardi E di sorrisi l’alternar soave, Di teneri sorrisi, onde natura Negò il bel dono a’ bruti ed ornò solo 295 Il sembiante dell’uomo, esca gentile Onde si pasce quell’amor che il nostro Più basso fin non è. Creonne Iddio Al travaglio non già penoso e duro, Ma al piacer ci creò, piacer che giunto 300 Sia con ragione. A questi andari, a queste Frondose volte, non temer, per quanto Ad agïato passeggio uopo ci fia, Torran le nostre mani agevolmente Ogni selvaggio ingombro, ed altre nuove 305 In nostr’aìta giovinette braccia Verran bentosto. Se però discaro T’è il conversar soverchio, oppormi a breve Lontananza fra noi non vo’: chè solo Starsi, è talor la compagnia migliore; 310 E a più dolce ritorno ci sospinge Un picciolo ritiro. Io sol pavento Che tu da me divisa un qualche danno Possa incontrar: qual ci fu dato avviso Dal ciel, tu il sai; tu sai qual vegli astuto 315 Nemico che il suo ben perdeo per sempre, E or invido del nostro, a noi con scaltro Assalto va tramando onta e ruina. Certo in agguato ei sta non lunge, e ’l tempo Del suo vantaggio e il loco, avido aspetta, 320 Quando disgiunti noi sarem, stimando Vane le prove sue mentre l’un l’altro Soccorrerci possiamo. O sia ch’ei tenti A quel sommo Signor renderci infidi, O il nostro disturbar tenero amore, 325 Che forse in lui maggior invidia desta D’ogni altro nostro ben, sia questo, o ancora Peggiore il suo disegno, ah! tu, mia cara, Quel fido lato ah! non lasciar che vita Ti diè da prima e ch’or ti guarda e copre. 330 Là dove onta o periglio ascosi stanno, Il posto più dicevole e sicuro È per la donna del suo sposo al fianco; Ch’ei veglia a sua difesa o corre insieme Ogni peggior destino. - A questi detti, 335 Qual chi amor pari all’amor suo non trova, Dolce ed austera insiem, con tutta in volto La maestà dell’innocenza accolta, Eva così risponde: - O Adamo, o figlio Della terra e del cielo, e re non meno 340 Dell’ampia terra tutta, il so che a trarci Dentro i suoi lacci un fier nemico aspira: Tu me n’avverti, e già l’udii pur anco Dall’Angel che partìa, mentre sull’ora Che i fior chiudon le foglie, indietro alquanto 345 Tra questi arbor frondosi il piè rattenni. Ma che sorgerti in cor dubbio potesse Di mia costante fè vêr te, vêr Dio Perchè un nemico può tentarla, ah! questo D’udir non m’attendea. L’aperta forza, 350 Incapaci, quai siam, di morte e pena, È vana contro noi: dunque gl’inganni Tu temi del nemico e temi a un tempo Che l’amor mio, che la mia salda fede Possan sedursi o vacillare. Ah! come 355 Questi pensieri, Adam, per lei che tanto T’è cara, nel tuo sen trovan ricetto? Con questi dolci allor teneri accenti Procura Adam racconsolarla: - O vaga Del ciel figlia e dell’uomo, Eva immortale, 360 Chè tal ti rende l’innocenza e ’l primo Invïolato tuo candor, non io, Perchè di te diffidi, ognor vicina Ti bramo al fianco mio, ma perchè ancora Gli assalti stessi del nemico nostro 365 Vorrei che tu schivassi. Anco sedurti Tentando sol, di turpe nota ei sparge La tua virtù che corruttibil crede Nè contro l’arti sue secura appieno. Un’onta è questa, ancor che vana, e sdegno 370 Tu medesma ne avresti. Or non ti spiaccia Se da te sola io distornar procuro Oltraggio tal, che l’inimico a un tempo, Per quanto audace sia, contr’ambi noi Non avrà forse di tentar baldanza, 375 O vôlti in me primier ne fian gli assalti. Nè la malizia e le coperte vie Tu dispregiar di lui: chi que’ superni Spirti sedur potè, sottile e destro Ben esser dee. No, non stimar soverchia 380 L’aìta altrui: dai sguardi tuoi maggiore Fassi ogni mia virtude: a te dinanzi E più saggio e più vigile e più forte Mi sento, ov’uopo il richiedesse, e l’onta D’esser sugli occhi tuoi vinto o deluso, 385 Doppia virtù m’accenderebbe in petto. E come tu del pari al fianco mio Non sentiresti maggior forza al core, E di venir coll’inimico a prova Anzi non sceglieresti allor ch’hai presso 390 Di tua virtude il testimon migliore? Le domestiche sue vigili cure E ’l coniugal tenero affetto esprime Ad Eva Adam così; pur ella assai Apprezzata da lui sua fè non crede, 395 E dolce gli risponde: - In breve giro Se rattenerci ognor così ristretti Debbe un nemico o vïolento o scaltro, E se niuno di noi per sè non basta A stargli all’uopo incontra, e come in questa 400 Perpetua tema ci direm felici? Ma che! niun mal, se nol precede il fallo Puote avvenirci alfin: ci oltraggia il nostro Nemico, è ver, con la sua turpe stima Di poterci sedur, ma quella turpe 405 Speranza sua verun disnore in fronte Non c’imprime però, che tutto torna Sovr’esso a ricader. Perchè temerlo, Perchè evitarlo dunque? Un doppio onore Dallo schernito suo stolto disegno 410 Anzi noi ritrarrem, l’interna pace, E dal ciel testimon di nostra fede Grazia sempre maggior. La fè, l’amore, La virtù che son mai, se all’uopo soli E senz’aìta altrui secura prova 415 Di sè non danno? Ah! non crediam che scema Nostra felice sorte abbia lasciata Quel saggio Creator sì che del pari Vivere in sicurtade uniti o soli Noi non possiam. Troppo sarebbe incerto 420 In cotal guisa il nostro bene, e a tanto Periglio sottoposta, indegna fora Del titol suo questa beata sede. - Non lagnarti del cielo (allor soggiunge Fervidamente Adam); tutte le cose 425 Ottime uscîr di man del Fabro eterno: Nulla quell’alta, onnipossente mano Lasciò imperfetto: e l’uomo avrìa lasciato? No, quanto sicurar da esterna offesa Può ’l suo stato felice, appien tutt’ebbe. 430 Suo rischio in lui sta sol, sebben la possa Stavvi ancor d’evitarlo, e mai non fia Che contro il suo voler danno riceva. Ma franco è il suo voler; chè franco è quello Che obbedisce a ragione; e retta Iddio 435 Fe’ la ragione, ma le impose ancora Di sempre star tra le maligne e false Imagini del ben guardinga e attenta, Onde contro gli espressi alti divieti La male istrutta volontà non torca. 440 Diffidenza non già, ma caldo amore Mi move dunque ad iterar sì spesso Gli avvisi miei con te; tu pur sovente Porgimi, o cara, i tuoi. Fermi or noi stiamo, Ma vacillar potremmo. Ah! sì, potrebbe 445 Qualche fallace, lusinghiera imago, Qualche nemico, insidïoso laccio Avviluppar ragion non così desta Com’ella esser dovrìa. Non gir cercando Dunque una pugna ch’evitar è il meglio, 450 E più agevole ancor, se tu non lasci Il fianco mio. Non ricercato ancora Il periglio verrà. Di tua fermezza Brami dar prova? Ah! dammi quella in pria Di tua docilità. Se lunge sei, 455 Testimon di tua fè, di tua costanza Come sarò? Pur tuttavia se stimi Che non cercato rischio a coglier abbia Entrambi noi più sprovveduti e lenti Di quel che tu, così avvertita, or sembri, 460 Va pur; chè, qui malvolentier restando, Più lontana da me saresti ancora. Va nel nativo tuo candor, riposa In tua virtù, tutta la sveglia, Iddio Le sue parti ha compiute, a te s’aspetta 465 Compier le tue. - Così diceale il nostro Antico sire: ella però non lascia Il suo proposto, ed ultima soggiunge, Ma sommessa ed umìl: - Tu mel consenti, E negli ultimi detti anco tu stesso 470 Pensi che un rischio inopinato entrambi Assalir ci potrà men cauti forse E men provvisti. Io più guardinga quindi E più lieta men vo, nè già m’attendo Ch’alla più debol parte in pria si volga 475 Un nemico sì altier, ma pur, se tale È il suo disegno, con maggior vergogna Rispinto ei partirà. - Così dicendo, Dolcemente la mano ella ritira Dalla man dello sposo, e qual fu pinta 480 Da’ greci vati boschereccia ninfa Oreade o Driade o del Latonio coro, Leggiadra e snella avviasi; e Delia stessa Al divin portamento, a’ bei sembianti Vinto avrebbe d’assai, benchè non d’arco, 485 Siccome quella, e di feretra armata, Ma sol d’arnesi rustici quai l’arte Dal foco intatta e rozza ancor, formolli, O qualche Angel recati aveali in terra. Pale o Pomona rassembrar piuttosto 490 Ella poteva o Cerere, in lor primo Vezzoso fior di verginal beltade. Con occhi accesi di desìo la segue Adamo, e con la man vêr lei distesa Di ritenerla agogna ancor; più volte 495 Di rieder tosto ei l’ammonì; più volte Verso il meriggio ella tornar promise, E nell’ordin miglior tutto disporre Quanto alla mensa è d’uopo, e a gustar quindi Grato riposo allor che il sol più ferve. 500 Eva infelice! Oh qual inganno è il tuo! Qual ritorno ti fingi! Ahi fero evento! No, dolce pasto e placida quïete Da quell’ora fatale in paradiso Non gusterai tu più. Tra i fiori e l’ombre 505 Sta nascoso infernal, invido agguato, Che di fè, d’innocenza e d’ogni bene Ignuda ti rimanda! Infin dal primo Spuntar dell’alba, di verace serpe Sotto le forme, iva spïando attento 510 Il fier nemico ove la prima e sola Coppia ritrovi e faccia in lei di tutta L’inchiusa stirpe un’ampia preda opima. Cercò boschetti e campi, ove alcun gruppo Sorgea più vago d’arbuscelli, e i segni 515 Apparìan di cultrice, industre mano, O d’uman piè qualche vestigio impresso, Or sul margin d’un fonte, ora d’un rio Di liete ombre coperto. Ei tutto intorno Col guardo interrogando, ambi ricerca, 520 Ma incontrar sopra tutto Eva in disparte Egli desìa; desìa, sebben non spera Ciò che sì rado avviene. Ai voti suoi La sorte alfin oltre ogni speme arride, E soletta la scorge. Un nuvoletto 525 D’alme fragranze le ondeggiava intorno, E folti cespi di vermiglie rose L’ascondean per metade: il molle stelo Ella s’inchina a raddrizzar de’ fiori Che le incarnate, porporine, azzurre 530 O di bei spruzzi d’ôr dipinte teste Lascian cadere a terra languidette, E con tralci di mirto al lor sostegno Gentilmente le annoda. Ah! ch’ella intanto Fra tutti il più bel fior, se stessa, obblìa, 535 Chè lontano l’appoggio e sì vicina Ha la procella! Spazïose vie, Su cui dall’alto il cedro, il pin, la palma, Diffondon ombra maestosa, allora Ravvolgendosi audace in lunghe spire 540 Tra i folti arbusti e fior che quinci e quindi Fan per mano di lei serto alle sponde, Or nascosto, or visibile ei traversa, Ed a lei si avvicina. Ameni e vaghi Tanto non fur del redivivo Adone 545 Imaginati un dì gli orti famosi, O quei d’Alcinoo, albergator cortese Del figlio di Laerte, o quei non finti, Ove con la leggiadra Egizia sposa Iva a diporto il saggio Re. Satáno 550 Molto il loco ammirò, ma più la bella Abitatrice. Qual chi chiuso a lungo In città popolosa, ove le folte Case e latrine attristan l’aere, uscendo In bel mattino alla stagione estiva 555 Per ville amene a respirar le pure, Campestri aurette, insolito diletto Prova da quanto incontra, or dalle fresche, Ora dalle recise erbe fragranti, Ora dalle cascine, or dagli armenti, 560 Da ciascun suono e da ciascuna imago; Ma se vezzosa forosetta intanto Passa a Ninfa simìl, quanto gli piacque Or per lei gli divien più vago e caro; Più che in altro però, sovr’essa il guardo 565 Torna a fissar, nel cui leggiadro aspetto Stima ogni gioia, ogni beltà raccolta: Tal dolcezza nel cor scender sentissi Satán, mirando il florido recesso Ove così di buon mattino e sola 570 Eva giungea. Le angeliche sembianze Di femminil, dolce mollezza sparse, Le sue grazie innocenti, ogni più lieve Suo moto ed atto la malizia in lui Giungono ad affrenare, e con soave 575 Rapina a svergli dall’atroce petto Il disegno feral. Stettesi alquanto Di sua malvagità, di sua fierezza Spogliato il crudo in stupida bontade, Ed invidia, rancor, frodi, vendetta 580 Vinto obbliò. Ma quel che in sen gli bolle, E in mezzo al ciel lo seguirebbe ancora, Rovente inferno ripigliò bentosto Novella forza, e l’ammiranda vista Di tante gioie a lui negate accrebbe 585 Tutti i tormenti suoi. L’odio e la rabbia Quindi ei raccoglie, se n’allegra e ’n questi Accenti infiamma la feroce mente: - A che venimmo, o miei pensieri? E quale Dolce delirio immemori vi rende 590 Di ciò che qui ci trasse? Odio fu quello, Amor non già, nè di cambiare in queste Gioie gli affanni miei speranza alcuna. Solo il piacer che dal distrugger nasce Ogni piacere, a me s’aspetta; ogni altro 595 Perduto è omai. L’occasïon m’arride, Trapassar non si lasci: ecco soletta Ad ogni assalto mio s’offre la donna; Lungi n’è Adam, per quant’io scorgo: è troppo Colui sagace, vigoroso, altero; 600 Benchè fatto di creta, ei tal non sembra Nelle sue forme eccelse, e forse ancora Non spregevol nemico esser potrebbe. Ah! sì, dal duol, dalle ferite immune Egli è, tal non son io: così cangiato, 605 Avvilito così da qual ch’io m’era, M’han le mie pene! È bella inver costei, Divinamente bella e degno oggetto Dell’amor degli Dei! Terror non spira, Benchè terrore anco in amor si trovi 610 Ed in beltà, se lor non fassi incontro Odio più forte; e l’odio è allor più fero Che sotto il vel di finto amor si cela; E così trarla a sua ruina intendo. - Così fra sè dicea chiuso nel serpe 615 Il gran nemico dell’umana gente, E ad Eva intanto s’avviò, non prono Con ondeggianti, sinuose pieghe Sul suol, com’indi in poi, ma di sua coda Su circolar sostegno ei dritto s’erge 620 In moltiplici rote, una sull’altra, Di torreggianti spire. Alto sormonta Il crestato suo capo, e quai carbonchi, Gli fiammeggiano gli occhi; il liscio collo Arde d’un oro verdeggiante in mezzo 625 Ai pieghevoli giri, onde gli estremi Volumi a fluttuar scendon sull’erba. Dilettevole, amabile in sembianza Egli si mostra, e serpe alcun più vago Non fu visto giammai; non quelli, in cui 630 Cadmo ed Ermione e d’Epidauro il Nume Cangiati fur, siccom’è fama, o quelli In cui si tenne che l’Ammonio Giove Ed il Capitolino un dì s’ascose, Per Olimpiade l’un, l’altro per lei 635 Che in Scipio partorì di Roma il vanto. Obbliquamente in pria, qual chi pur brama D’appressarsi ad alcun, ma insiem paventa Giugnere inopportuno, a lei di costa Satán si tragge: o qual nocchiero esperto 640 Presso una foce o capo, ove più varj Soffiano i venti, a questa parte e a quella, A seconda di lor, cangia governo, E torce obbliquo delle vele il grembo; Tal egli ancor varia i suoi moti, e ’n cento 645 Scherzosi avvolgimenti a vista d’Eva Il flessuoso strascico raggira Onde allettarne i guardi. Ella ben ode Di fronde uno stormir, ma ad altro intenta Non si volge però; chè avvezza è spesso 650 Veder davanti a sè scherzar pe’ campi Le belve alla sua voce ubbidïenti Più che non fu da greci vati pinto Sommesso a Circe il trasformato gregge. Più audace quindi le s’appressa in atto 655 Di meraviglia e di stupore, a lei L’altera cresta e lo smaltato collo Più volte inchina lusinghiero, e lambe Il terren tocco dal leggiadro piede. Quel muto favellar, que’ guizzi alfine 660 Richiamâr d’Eva il guardo; egli n’esulta, E la lingua del serpe a nuovi umani Accenti disciogliendo, ovver spirando Nell’aere un vocal suono, alle sue trame Diè principio così: - Sovrana eccelsa, 665 Non istupir, seppur a te che chiudi Tutte le meraviglie, oggetto alcuno Mirabil esser può, nè gli occhi tuoi, In cui tanta del ciel parte risplende, Di sdegno armar, s’io così solo ardisco 670 Di farmiti d’appresso e pascer quella, Ch’ho d’ammirarti, insazïabil brama; Nè paventai l’augusta fronte e ’l ciglio Che maggior maestà spirano ancora Fra questi ermi recessi. In te, perfetta 675 Del grande Autore imagine sublime, Tien fiso il guardo ogni vivente cosa Ch’è a te per don del Creator soggetta, E la celeste tua beltade adora, Quella beltà che di più vasto degna 680 Altro teatro fora e d’altri onori. Entro questo recinto, in mezzo a queste Belve, insensate spettatrici, e inette A discerner perfin de’ pregi tuoi Una piccola parte, or chi ti mira, 685 Tranne un sol uomo? Ed un sol uomo ch’è mai, Mentre locata fra gli Dei tu Dea E da perpetuo d’Angeli corteggio Adorata e servita esser dovresti? - Così la voce lusinghiera sciolse 690 Il tentator serpente, e d’Eva in core Si fer strada quei detti. Al nuovo suono Ella attonita resta, e: - Qual portento Fia questo? alfin risponde - uman linguaggio Nella bocca d’un bruto, e sensi umani! 695 Alle belve finor negato il primo Stimai dal ciel che sol le fe’ capaci Di rozzi accenti e mormorio confuso. Se luce di pensiero in esse splenda, In dubbio io stonne; chè a’ sembianti, agli atti 700 Molta ragione in lor sovente appare. D’ogni altra belva più sottile e scaltro Te, serpe, io conosca, ma voci umane Atto a formar non ti credei. Rinnova Or questa meraviglia, e narra come 705 A te già muto ora il parlar s’è aggiunto, E come sì piacevole ed amico Più di tanti animai che al mio cospetto Stan tutto il dì, mi ti dimostri. Parla; Chè ben d’ascolto un tal prodigio è degno. 710 - Bellissim’Eva, il tentatore astuto Subito replicò, degna Reina Di quanto in sè questo bel mondo serra, A te l’imporre, a me s’aspetta i tuoi Cenni obbedir, nè il soddisfarti adesso 715 Difficile mi fia. Qual l’altre belve Che van pascendo le calcate erbette, Io pur m’era da prima, e abbietti e vili Eran, come il mio cibo, i miei pensieri. Il cibo e ’l sesso io discernea soltanto, 720 Ma nulla di sublime e di gentile; Finchè, per questi campi un dì vagando, A scorger venni una superba pianta Che tutta carca rifulgea da lunge D’aurate insieme e porporine poma. 725 M’appresso a vagheggiarla, e tal si spande Da lei soave peregrino odore Che più i sensi m’alletta e mi lusinga De’ finocchietti teneri, fragranti, E delle mamme che stillanti e colme 730 Recan di latte le pasciute gregge In sulla sera e non succhiate ancora Dai giovin figli alle lor tresche intenti. Di gustare i bei frutti ardente brama Tosto mi nacque, e d’appagarla tosto 735 Io pur presi consiglio, e fame e sete, Due stimoli possenti, in me da quella Dolce fragranza anco innaspriti, a un tratto Mi spinser sulla pianta. Agli alti rami, Che a gran fatica il tuo disteso braccio 740 Può giugnere a toccare o quel d’Adamo, Avviticchiato pel muscoso tronco Su, su m’alzai. D’un invido desire Ogn’altra belva che a mirarmi stava, Struggeasi a piè dell’arbore, agognando 745 Nè potendo salir. Giunto là dove Pendeami intorno allettatrice e folta Di que’ pomi la copia, avidamente Io mi diedi a spiccarli, e farne appieno Sazie le voglie mie chè in pasco o fonte 750 Non mai trovato avean dolcezza tanta. Satollo alfine, in me subito farsi Sento mirabil cangiamento: un raggio Di viva luce a rischiararmi scese, Aura superna ricercommi il petto, 755 Nè il parlar mi mancò, bench’io serbassi, Come tuttor, le prime forme. A grandi Sublimi studj da quel punto io tutti I miei pensier rivolsi e quanto il cielo, L’aere e la terra abbraccia e quanto in essi 760 È di vago e di buon, colla capace Mente tutto indagai, tutto discersi. Ma guanto altrove di più bel si trova E di miglior, nel tuo divino aspetto Unito io vidi e nel celeste lume 765 Di tua bellezza. No, bellezza eguale O simile alla tua certo non evvi. Ciò mi spinse a venir, benchè importuno Forse, per ammirarti, e omaggio e culto Render a lei che, a gran ragion, d’ogni altra 770 Creatura e del mondo ebbe l’impero. - Così ripien dell’infernal possanza Dicea l’accorto serpe, e incauta e presa Da maggior maraviglia Eva soggiunge: - Le somme lodi, o serpe, onde cotanto 775 Tu di quel frutto la virtude estolli Da te provata sol, sospeso, incerto Tengono il creder mio. Ma di’, tal pianta Dove e quanto di qui cresce lontana? Molte e diverse, a noi tuttora ignote, 780 Qui sorgon piante, e tal dovizia a noi S’offre pertutto di squisite poma Che non tocca di lor la più gran parte Dai curvi rami incorruttibil pende; Finchè a tante ricchezze un giorno sorga 785 Novella gente e sgravino altre mani Alla natura l’ubertoso grembo. - Breve, o Reina, e facile è la via, Lieto risponde a lei l’astuto serpe: Per la pianura, oltre un filar di mirti, 790 Appresso un fonte e dopo un bel boschetto Di balsamo e di mirra. Ivi bentosto Sarai, se accetti la mia scorta. - Andiamo, Eva soggiunge: e al mal oprar veloce Egli a vicenda or si raggruppa or scioglie 795 Ratto e lieve così che dritto sembra In suoi viluppi camminar. La speme Alto gli leva il collo, e per la gioia D’una luce maggior gli arde la cresta. Come pingue vapor, da gel notturno 800 Cinto e stretto talor, s’erge nei campi, Indi agitato si converte in chiara, Tremula vampa, a cui maligne larve Spesso, siccom’è fama, unite vanno, E col suo lume ingannator travia 805 Sovente il peregrin che dentro a ciechi Burroni e stagni alfin s’affonda e perde Privo d’aìta; tal risplende il serpe, E la credula nostra antica madre Conduce con sue fraudi alla radice 810 D’ogni mal nostro, all’arbore fatale. Quand’ella il vede, al guidator rivolta, - Ben potevám di qui lontani, o serpe, Rimanerci, gli dice; ancor che tanta Copia di frutte da quest’arbor penda, 815 La lor virtude, i lor stupendi effetti Mostrinsi pur in te: toccar perfino A noi non lice questa pianta: Iddio Così c’impose, e di sua voce figlio A noi lasciò questo divieto solo. 820 In nostro arbitrio è il resto, ed è soltanto La ragion ch’ei ci diè la nostra legge. - E fia ciò vero? - insidïoso a lei Replica il tentator - non tutte dunque Gustar potete queste frutta? e Dio 825 Così vi disse allor che tutto in terra E nell’aer sommise al vostro impero? - De’ frutti d’ogni pianta, Eva soggiunge Innocente tuttor, gustar ci lice; Ma del frutto che dà quest’arbor vago 830 Posto in mezzo al giardino, Iddio medesmo: Non ne gustate e nol toccate, o morte Avrete inevitabile, ci disse. I brevi detti ella chiudeva appena, Che, fatto quel maligno anco più baldo, 835 Amor per l’uom fingendo e zelo e sdegno Per l’oltraggio ch’ei soffre, un nuovo aspetto Riveste, e par che fra magnanim’ira Incerto ondeggi; maestoso e grave Quindi si leva, e a dir sublimi cose 840 Pronto si mostra. Nell’antica etade Tal in Atene o Roma, ove fiorìa, Muto dipoi, libero dir facondo, Celebrato orator quando al sostegno Di gran causa accingeasi, in sè raccolto 845 Tutto si stava, e pria che l’aurea piena Sgorgasse dalle labbra, il volto, il ciglio, Ogni gesto, ogni moto in lui parlava Ed ascolto chiedea; talor rapito Dallo zelo del dritto e impazïente 850 D’esordj e indugi, all’argomento in mezzo Fervido si slanciava. In simil guisa S’atteggiò quell’iniquo, erto levossi E all’arbor vôlto, impetuosamente Così proruppe: - O sacra, o eccelsa pianta, 855 Di Saper madre e largitrice, or chiara Sento in me la tua possa, or che discerno Delle cose non sol le fonti e i semi, Ma di que’ sommi Artefici, per quanto Saggi stimati sieno, ancor gli arcani. 860 No, Reina del mondo, a tai minacce Di morte ah! non dar fè: voi non morrete: Morir! perchè? pel frutto? Ei più sublime Vita v’arreca sol. Morte paventi Da chi la minacciò? Me, me riguarda 865 Che toccai, che gustai quell’almo cibo; Eppur vivo non sol, ma vita n’ebbi Di quella assai più luminosa ed alta Che assegnommi il destin, calcato e vinto Dal mio felice ardire. All’uom si nega 870 Ciò ch’è libero a’ bruti? E così lieve Trascorso accenderà d’un Dio lo sdegno? Nè fia piuttosto ch’ei medesmo ammiri Quell’audacia magnanima che, a vile La morte avendo (checchè sia la morte) 875 E le minacce sue, più nobil grado Cercò di vita, e ’l bene e ’l mal del paro Conoscer volle? Aver del ben contezza Troppo conviensi; e il mal (seppure un vôto Nome ei non è) perchè celar si debbe? 880 Meglio l’evita chi ’l conosce. Iddio Nuocervi ed esser giusto insiem non puote: S’ei non è giusto, ei non è Dio; nè vuolsi Più obbedire o temer. Così la stessa Vostra tema di morte ardir v’insegna. 885 Qual esser può d’un tal divieto il fine? Non vuol ei col timor tenervi ognora Suoi ciechi, umìli, adoratori abietti? Dal giorno, egli il sa ben, dal giorno in cui Gustiate queste frutta, al vostro sguardo 890 Ch’or sì chiaro vi sembra, eppure è fosco, Si squarcerà, si purgherà la nube; Pari sarete a Numi, e al par vi fia Del ben, del mal l’alta scïenza aperta. S’io d’uom le interne facultadi ottenni, 895 Ben è ragion che somiglianti a Dei Voi divenghiate. La brutale essenza Io cangiai nell’umana, e voi l’umana Cangerete in divina. Ecco la morte Forse che vi s’intima, il depor questa 900 Vostra natura e rivestir quell’altra Alma e celeste. Oh bel morire! oh folli Minacce! oh lieto e desïabil danno! E che son mai gli Dei talchè l’uom farsi Non possa a loro egual, se eguale il pasca 905 Divino cibo? Essi fur primi, e quindi, Che tutte cose di lor man fur opra, Presso a chi venne poscia, acquistan fede. Dubbio ciò parmi assai; dal sen di questa Vaga terra che il sol scalda e feconda, 910 Tutto uscire io rimiro, e nulla mai Da quei sterili Dei. S’eglino autori Del Tutto son, chi la scïenza dunque Del ben, del male in questa pianta ha chiusa Sì che, malgrado lor, saggio ad un tratto 915 Dell’alme frutta il gustator diviene? E in che gli offende l’uom, s’egli all’acquisto Aspira del saper? qual danno a Dio Dal saper vostro? E come mai, se tutto Suggetto è a lui, contro sua voglia ancora 920 I doni suoi quest’arbore dispensa? Forse ad un tal divieto invidia il mosse? E nel seno d’un Nume invidia alberga? Queste, sì queste ed altre assai ch’io taccio, Ragioni appieno vi convincon quanto 925 Uopo del frutto abbiate. Umana Dea, La man vi stendi e senza tema il gusta. Tacque, e di lei nel cor facil la via Ritrovaron que’ detti. Il guardo affisa Ella sul frutto, la cui vista sola 930 Era sì tentatrice, e ’l suon di quelle Persuadevoli voci, in cui le sembra Scorger espressa la ragione e ’l vero, Le si raggira entro l’orecchie ancora. A mezzo omai del suo celeste corso 935 S’avvicinava il sole, e già la fame Che il saporoso odor de’ vaghi pomi Irritava ancor più, s’era in lei desta, E di côrne e gustarne al cupid’occhio Fea possente lusinga. Alquanto in prima 940 Però s’arresta incerta, e in sè rivolge Questi pensieri: Alte, ammirande sono Inver le tue virtudi, o d’ogni frutto Frutto miglior, benchè per l’uom non sieno. Gustato appena, tu snodasti al bruto 945 La rozza lingua al favellare inetta, E gl’insegnasti a celebrar tue lodi: Nè le tue lodi quei medesmo tacque Che a noi ti divietò, quand’egli il nome D’arbore del Saper ti diè, del grande 950 Saper che il bene e ’l mal libra e distingue. E a noi poscia negotti! Ah! quel divieto Le tue virtù più scopre, e quanto avrebbe Uopo de’ doni tuoi la nostra sorte. Com’esser può che d’un ignoto bene 955 Ci procacciam l’acquisto? E un bene ignoto. Mentr’anco il possediam, fors’è diverso Da quello onde siam privi? Or s’egli dunque Il saper c’interdice, un ben ci vieta, Ci vieta l’esser saggi. Un tal comando 960 Obbligarci non può. Ma se dipoi Nelle catene sue Morte ci serra, Dai sublimi pensier, da questa nostra Libertade qual pro? Nel dì che al frutto Il labbro accosterete (è tal la legge), 965 Preda siete di morte. Or come il serpe Morto non giace? Ei n’ha gustato e vive, Vive e parla e ragiona e appien discerne Ei ch’era privo di ragion. La morte Per noi soli inventossi? e questo cibo 970 Che di superna luce empie la mente, A belve si riserba e a noi si niega? Sì, par ch’ai bruti ei si riserbi: eppure Quei che primo fra lor ne fe’ la prova, Invidia non ne mostra, anzi con gioia 975 Del ben che gli toccò c’invita a parte, Consiglier non sospetto, all’uomo amico, Non ingannevol, non maligno. Adunque Che mai pavento? anzi, conosco io forse Ciò ch’io debba temer, se cieca, ignara 980 Vivo così del ben, del mal, di Dio, Di morte e legge e pena? In questo divo Frutto che il guardo appaga e ’l gusto alletta, Qui il rimedio si sta: questo mi puote Sparger l’alma di luce e saggia farmi. 985 Che dunque mi ritien? perchè nol colgo, E corpo e mente io non ne pasco insieme? Mentre così dicea, l’audace mano (Ahi terribil momento!) al frutto stese, Lo spiccò, lo gustò. D’orror la terra 990 Tutta fremè; dalle riposte sedi Profondamente sospirò Natura E per ogni opra sua segni di duolo Diede e dell’alta universal ruina. Ratto s’invola dentro al bosco intanto 995 Il serpe reo, nè già vi bada tutta Al novello sapor la donna intesa. Piacer sì dolce in alcun frutto mai Di trovar non le parve, o così fosse Veracemente, o l’agitata idea 1000 Dalla speranza del Sapere accesa E già sognante i divi eccelsi onori, Inganno le facesse. Avidamente Senza ritegno alcuno ella il divora, Nè sa che morte inghiotte. Alfin satolla, 1005 Di vinoso licor quasi ebra e calda, Così esulta in suo core: - Arbor sovrano Che tanto ogni altra pianta in pregio avanzi, O di felicità, d’almo sapere Dispensator possente, e tu finora 1010 Negletto rimanesti e senza onore? E quasi di natura un germe vano Le belle poma tue pendêro intatte? Ah! più non fia così. Mia prima cura Tu sarai quind’innanzi: io le dovute 1015 Lodi al tornar d’ogni novella aurora Qui tornerò a cantarti, e i rami carchi Di sì ricco tesoro a tutti aperto Disgraverò, finchè, di te nudrita, In sapienza io cresca e ugual divenga 1020 A’ Dei che tutto sanno, e invidian poscia Altrui quel ben ch’essi largir non ponno, Chè tanto qui, se dono lor tu fossi, Cresciuto non saresti. A te dipoi, O Sperïenza, incomparabil guida, 1025 Quanto degg’io! Senza di te sugli occhi Avrei tuttor dell’ignoranza il velo: Tu mi sgombrasti del saper la via E a que’ misteri ebbi per te l’accesso In cui s’asconde: e forse anch’io del cielo 1030 Or m’ascondo agli sguardi. Alte e rimote Troppo son quelle sedi onde si possa Ogni cosa quaggiù scorger distinta. Forse altre cure han disviato ancora Il vigil occhio di quel sommo nostro 1035 Divietator che appien si fida in tanti Esploratori suoi. Ma come in faccia Comparirò d’Adam? Degg’io svelargli Qual io divenni, ed invitarlo a parte Di mia felicitade, o meglio fia 1040 Ch’io per me sola il gran vantaggio serbi Ch’or m’acquistai? Quel ch’al mio sesso or manca, Gli aggiugnerò così, così d’Adamo Accrescerò l’amor, miei pregi eguali Saranno a’ suoi, forse maggiori ancora! 1045 Chi sa? nè scopo de’ miei voti indegno Questo sarìa. Libero forse è mai Quei ch’è minor? Sì, questo il meglio fora; Ma se di ciò che feci Iddio s’accorse, E morte me ne segue? Adam congiunto 1050 Ad un’altr’Eva allor, godrà felice Con lei la vita; ed io?... Mortal pensiero! Son risoluta: Adam con me divida Le mie gioie, i miei mali; ei m’è sì caro Che andrei con seco a mille morti, e, priva 1055 Di lui, la vita a me vita non fora. Così dicendo, all’ospital possanza, Che albergar nella pianta ella si crede, Ed informar del néttare divino, Del succo irraggiator le belle poma, 1060 Umil s’inchina e di là torce il passo. Desïoso aspettando il suo ritorno Adamo intanto, ad adornarle il crine E coronare il suo rural lavoro Avea di scelti fior tessuto un serto, 1065 Qual delle messi alla regina usati Son d’offerire i mietitor sovente. Qual contento, qual gioia in mente ei volge Al ritorno di lei! Come del lungo Indugio ei spera compensar l’affanno! 1070 Ma pure il cor con interrotto e spesso Palpitar gli porgea presagio tristo Di qualche danno. Ad incontrarla alfine, Per quella via ch’ella partendo tenne, Verso la pianta del Sapere il piede 1075 Egli rivolge, e in lei che riede appunto, Colà presso s’avviene. In mano un ramo Ella tenea di quelle vaghe frutta Che côlte pur allor, ridean di molle Lanugine cosperse, e ambrosio odore 1080 Spargeano intorno. Ella ver lui s’affretta, E già troppo sollecita nel volto, Prima ch’ella parlasse, avea la scusa, Che in queste a voglia sua dolci parole Prosegue poi: - Non dell’indugio mio 1085 Stupisti, Adam? Di tua presenza priva, Oh quanto fur penose e a scorrer lente L’ore per me! Qual non sentito innanzi Struggimento amoroso a provar ebbi! Ma fu la prima volta e fia l’estrema; 1090 No, non più mai questo crudele affanno Che inesperta cercai, soffrir vogl’io, Di star lungi da te. Ma qual ventura O qual prodigio mi ritenne, ascolta. Qual ci fu detto, periglioso cibo 1095 Quest’arbore non dà, nè schiude il varco A ignoto mal, ma stenebra le luci Per divina virtude, e cangia in Nume Chi le frutta ne gusta. Il saggio serpe, O non soggetto alla severa legge 1100 Che a noi lo vieta, o dispregiarla osando, Ne fe’ la prova, e non già morte ei n’ebbe, Siccome a noi si minacciò, ma voce Umana e umani sensi e di ragione Meraviglioso lume. Ei sì mi strinse 1105 Co’ detti suoi che ne gustai pur io, E alle promesse corrisponder tosto Sentii gli effetti; lucido lo sguardo Di fosco ch’era in pria, più grande il core, Più sublime lo spirto e caldo e pieno 1110 Già di virtù divina. Io l’alto acquisto Per te bramai, senza di te lo sdegno: Chè sol teco m’è dolce ogni mia gioia, E con te non divisa, amara tosto E grave mi divien. Tu pure il frutto 1115 Prendi dunque e l’assaggia, onde per sempre, Come un eguale amor ci unisce e lega, Egual gaudio ci unisca e sorte eguale; Nè il tuo rifiuto sia cagion fra noi D’ordin vario di vita, e tardi io voglia 1120 Lasciar per te la diva essenza allora Che più non mel consenta immobil fato. Festante, sollazzevole dicea Eva così, ma le accendea le gote Un colpevole insolito rossore. 1125 Il fatale misfatto udito appena, Stupido, immoto, pallido si feo Adamo, e tutte un freddo gel gli corse Le vene e l’ossa, e le giunture sciolse. Di man gli cade l’apprestato serto, 1130 E le già fresche, or appassite rose Van sparte al suol; la voce e le parole Gli toglie un alto orror; nel cor gemente Così tacito poi seco favella: - O del mondo ornamento, o dell’Eterno 1135 Ultim’opra e migliore, in cui quant’altro D’amabil, di gentil, d’almo e divino Può scorger occhio o imaginar pensiero, Tutto splendea, come perduta sei! Come a un tratto perduta! ed ogni vanto 1140 Dell’onor tuo, di tua beltà disparve! Oh vittima di morte! Al sacro frutto Come la mano rea stender potesti E ’l gran divieto vïolare? Ahi quale Nemica ti deluse ignota frode 1145 E trascinotti al precipizio ov’io, Io pur trabocco; chè con te già fermo Son d’incontrar la morte! E come privo Di te viver poss’io? come lasciare Tua dolce compagnia? come dal petto 1150 Svellermi il forte amor che a te m’annoda, E per questi ermi boschi errar solingo Un’altra volta? Ah! se un’altr’Eva ancora D’un’altra costa mi formasse Iddio, Ah! mai del cor la tua diletta imago 1155 Non m’uscirebbe, mai. No, no, lo sento, Infrangibil catena a te mi stringe Della natura: di mia carne sei Tu carne, ossa dell’ossa, e ’l tuo destino, Felice o tristo, il mio destin fia sempre. 1160 Disse, e qual è chi d’angoscioso e fero Sbigottimento in sè ritorna, e, vinto Il tumulto del cor, sommesso cede A irreparabil sorte, ad Eva questi Detti volge tranquillo: - Ah quale ardire, 1165 Eva, fu il tuo! Qual perigliosa prova Far su quel pomo al digiun sacro osasti, Mentre lungi non sol la mano e il labro Star ne dovea, ma il cupid’occhio ancora! Ma chi può rivocar le andate cose 1170 E ’l già fatto disfar? Non Dio medesmo, Non il Destin. Nè tu morrai, lo spero, Nè cotanto odïoso è forse il fallo, Da che nudrissi di quel frutto il Serpe E il dissagrò col suo profano dente 1175 E comun cibo il rese. A lui mortale Esso non fu, tu lo dicesti, ei vive E più sublime ancor grado di vita Ottenne, all’uom fatto simìl: del pari Dunque fia pur che noi sorgiamo a quello 1180 D’Angeli e Semidei. Credere inoltre No, non poss’io che quel sì saggio e grande Del Tutto creator, benchè sì gravi Fusser le sue minacce, al nulla primo Voglia noi ritornar, noi che sull’altre 1185 Opre sue tutte ei sollevò cotanto, Di tanti doni ornò. Per noi creato Fu il resto e a noi soggetto, e nosco insieme Cadrebbe pur nella ruina stessa. Dunque crear, distruggere, deluso 1190 Rimaner, perder l’opra Iddio potrebbe? Chi può pensarlo? A trar dal nulla un nuovo Mondo il solo voler, lo so, gli basta; Ma non perciò men ripugnante ei fia Sempre al disfarci, onde il nemico altero 1195 Con scherno a dir non abbia: Ecco la sorte Di lor, cui Dio più favoreggia! a lungo Chi puot’essergli caro? Io fui la prima Vittima sua, l’uomo è seconda, or quali E quante poi fien l’altre? A tai dileggi 1200 Dar argomento ei non vorrà. Ma sia Quel ch’esser puote, al tuo destin congiunto Il mio fia sempre, e la sentenza pari Sovr’ambedue: se morte a te m’unisce, Mi fia cara la morte; un laccio io sento, 1205 Un saldissimo laccio in questo seno Che all’altra mia metà un’avvince e tira. È mio ciò che tu sei, sola una carne Noi siamo, un esser solo, e s’io ti perdo, Perdo me stesso. - Oh glorïosa prova 1210 D’un amor senza pari! (allor risponde Eva) sublime esempio che m’infiamma Ad emularti! ma, inegual cotanto, Come il poss’io? Fuor del tuo caro lato È gloria mia l’esser uscita, e tutto 1215 Una soave gioia il sen m’inonda, Quando del nostro amor, d’un cor, d’un’alma In ambi noi t’odo parlare; e certa Prova men reca questo giorno. Innanzi Che morte, od altro più di morte orrendo, 1220 Il nostro dolce nodo a romper venga, Tu fermo sei d’entrar con meco a parte Della mia colpa, se gustar è colpa, Questo bel frutto che un sì caro pegno (Forz’è ch’ognor dal bene il ben germogli) 1225 Della tua tenerezza oggi mi porge: La cui sublime tempra appien, com’ora, Senz’esso, intesa io non avrei giammai. Ah! s’io credessi che seguire al mio Ardir dovesse l’intimata morte, 1230 Ogni peggior destin soffrire io sola Certo vorrei, sola morir piuttosto Che farmi a te consigliatrice mai D’alcun tuo danno, ed assai meno or quando L’incomparabil tuo verace amore 1235 Conosco a certi e manifesti segni. Ma ben diversi i fortunati effetti In me ne provo, e, non che morte, io sento Fatta maggior la vita, acuto il guardo, Nuove speranze, nuove gioie, e sparso 1240 Il labbro mio di sì divin sapore, Che quanto di più dolce in pria gustai, Insulso od aspro or sembrami. T’affida Alla mia prova, Adam; gustane, e ’l vano Della morte timor consegna ai venti. 1245 Così dicendo, ella abbracciollo e pianse D’una tenera gioia, a tant’altezza Spinto veggendo in cor di lui l’amore Che per lei scelga d’affrontar la morte E lo sdegno del cielo. In premio quindi 1250 (Premio ch’è ben dovuto a quella rea Condiscendenza) dal divelto ramo A lui con mano liberal presenta Le frutta allettatrici. Egli sospeso Punto non sta, ma, benchè scorga il meglio, 1255 Da troppo amore e da que’ vezzi vinto Le prende e le divora. Al nuovo eccesso Che la gran colpa original compiea, Dall’intime sue viscere la terra, Come tra fiere ambasce, un’altra volta 1260 Tutta tremò, mise natura un nuovo Cupo lamento, rinfoscossi il cielo, E al mormorar del tuono alcune stille Gittò, quasi di pianto. Adam non prende Di ciò pensiero, a satollarsi inteso; 1265 Nè il primo fallo rinnovar paventa Seco la donna e con l’esempio il molce. Alfin, siccome dal fumoso esálo Di fresco vin possente ambo compresi, Nuotano nella gioia, e lor rassembra 1270 Virtù divina entro sentir che il tergo Lor cominci ad armar d’eterei vanni, Onde fra poco aver la terra a scherno. Ben altro in essi opra però da prima Quel frutto ingannator, sfrenate, impure 1275 Voglie destando: egli lascivo il guardo Volge sopr’Eva, ed Eva al par lascivo Lo rivolge su lui; fra lor divampa Un cieco ardore, e con tai detti Adamo Primo la invita: - Il fior, ben veggo, o cara, 1280 Di squisitezza e d’eleganza intendi; E le mie lodi in questo dì ben merti Che vivanda apprestare eletta e rara Hai saputo così. Quanto diletto, Fuggendo i doni di sì nobil pianta, 1285 Perduto abbiam finor! Quanto di vere Saporose delizie ignari fummo! Se i vietati piaceri han tal dolcezza, Perchè vietato fu quest’arbor solo? Ristorati così, dopo sì grato 1290 Pasto, ad altri diletti amor ci chiama: Vieni: dal dì ch’io ti mirai da prima Di tanti pregi adorna e mia ti fei, Non mai sì vivo ardor m’accese il petto, Nè sì bella com’or, mercè di questo 1295 Arbor possente, mi sembrasti mai. Con questi detti ei mesce e sguardi e vezzi Da lei compresi appien, da lei che vibra Per le pupille tenere, languenti Dolce contagio d’amorosa fiamma. 1300 Per mano egli la prende, e sovra lieta Sponda, a cui feano un verde tetto i folti Rami intrecciati non restìa la guida. D’asfodilli e giacinti e violette Un letto morbidissimo la terra 1305 Lor ivi offerse, ed alle accese brame Pieno sfogo ivi dier, pegno e conforto Del lor fallo comun, finchè le stanche Lor membra il sonno ad irrigar discese. Ma poichè spersa del fallace frutto 1310 Fu quella forza vaporosa e dolce Che, fervida scherzando al core intorno Ed agli spirti, avea lor menti illuse; E poichè si disciolse il grave sonno, D’ebbrezza figlio, che turbato e scosso 1315 Avean frequenti, minacciose larve, Da quel riposo, anzi da quell’affanno S’alzaron lassi, attoniti, l’un l’altro Si riguardaro, e ben s’avvider tosto Come schiusi avean gli occhi, e come cinte 1320 Le menti di buior. L’alma innocenza Che coperti li avea quasi di un velo, E insino allor del mal la turpe faccia Lor nascondea, fuggì: fuggì la bella Mutua fidanza, la bontà, lo schietto 1325 Candor primiero ed a colpevol’onta Furon nudi lasciati. Invan coprirla Essi vorrian, chè più palese ancora La fan così. Qual dal lascivo grembo Della druda infedel Sansone il forte 1330 Raso s’alzò del suo vigor primiero, Tal d’ogni onor di lor virtù spogliati Si trovan essi. Uno appo l’altro assisi Stetter gran tempo, sbigottiti, muti, Cogli occhi al suolo affissi. Alfin, quantunque 1335 Non men d’Eva confuso, Adam con pena Questi flebili accenti al labro trasse: - In qual punto fatale, oimè! l’orecchio A quel bugiardo verme, Eva, porgesti, Chiunque fosse che l’uman linguaggio 1340 Contraffar gl’insegnò! Ben altra sorte Veritier ci annunziò, ma, troppo falso, Una sorte miglior: son gli occhi nostri Or aperti pur troppo, appien pur troppo Veggiamo il bene e ’l mal; perduto bene 1345 Ed acquistato male. Oh! frutto reo Del Saper, se Saper questo s’appella, Che d’innocenza, di purezza e fede Orbi ci lascia e d’ogni pregio antico; E nel volto c’imprime i chiari segni 1350 D’un turpe ardor, fonte di mali, e l’onta Alfin che tutti gli accompagna e chiude La trista schiera! Ah! come innanzi a Dio, Come agli Angeli suoi, che pria sì spesso Scender a noi con tanta gioia vidi, 1355 Più mostrarmi io potrò? Queste or mortali Pupille inferme a sostener capaci Non saran più quello splendor superno. Oh! potess’io trar qui selvaggia vita In qualche burron cupo, ove del sole 1360 E delle stelle a’ rai mi ricoprisse Boscaglia impenetrabile con ombra Ampio stesa di folta eterna notte! Vostri rami addensate, o cedri, o pini, Copritemi, ascondetemi sì ch’io 1365 Il ciel non vegga più. Ma intanto in questo Misero stato nostro almen si cerchi Come celar l’uno dell’altro al guardo Quel ch’ora in noi sembra arrecare oltraggio Al decoro, al pudor. Di qualche pianta 1370 Le molli ed ampie foglie insiem congiunte Cingano i lombi nostri, onde l’infesta Onta che a perseguirci ha testè preso, Sovra noi non si posi e ci rimprocci Nostra bruttura. - Ei sì consiglia, ed ambo 1375 Nel più folto del bosco insieme entraro, E tosto il fico elessero, non quello Che da’ suoi dolci frutti ha nome e loda, Ma quel ben noto anch’oggi agl’Indi adusti Nel Malabar e nel Decan, che vaste 1380 E lunghe stende le ramose braccia, Da cui pendenti al suol nuovi rampolli Metton nuove radici, ed ampia intorno Cresce la prole alla materna pianta In largo giro di colonne e d’archi 1385 Frondosi, alteri, e d’echeggianti vie. Ivi l’Indo pastor dal raggio ardente Spesso ricovra, e per gli aperti spazj Sta rimirando, alla fresc’ombra assiso, Gli sparsi armenti pascolar sul piano. 1390 Di quell’arbor le foglie eguali ad ampio Scudo amazonio essi spiccaro, e come Seppero il meglio, insiem le uniro e un cinto Se ne formaro. Ahi vane cure! il turpe Lor fallo e la temuta onta seguace 1395 Non celan già! Quanto dal primo onore D’ignuda purità, quanto è diverso Quel tristo ammanto! In guisa tal fasciati Di penne i fianchi e le altre membra ignudi Trovò Colombo, non ha guari, erranti 1400 Ir per foreste e per boscosi lidi Gli abitator del discoperto mondo. Così credero i nostri padri, almeno In parte, aver la lor vergogna ascosa; Nè men perciò tristi e dogliosi, in terra 1405 A lagrimar s’assisero, nè solo Larga versâr dagli occhi amara vena, Ma di sconvolti impetuosi affetti Nelle lor alme ad innalzarsi un nembo Incominciò. Disdegno, odio, sospetto, 1410 Diffidenza, discordia agita e scuote Le misere lor menti, albergo in pria Di calma e pace, or di tumulto e guerra. Sulla ribelle volontà governo Non ha più l’intelletto, ambi son fatti 1415 De’ sensi schiavi, e di ragion l’impero Usurpan cieche, disfrenate voglie. Alfine Adam, da quel ch’egli era un tempo Non meno che nel cor, tutto cangiato Nel volto e nella voce, il suo ripiglia 1420 Interrotto parlare: - Ah! se l’orecchio, Eva, tu davi al mio pregar, se quando Quest’infausto mattin quella sì strana Voglia d’errar, come non so, ti prese, Se tu con me fossi rimasta, ancora 1425 Noi saremmo felici, e privi adesso Eccoci d’ogni ben, d’onta coperti, Nudi, meschini! Ah! più non sia chi cerchi Dar di sua fè non bisognevol prova: Chi darla avido anela e vuol perigli 1430 Temerario incontrar, sull’orlo ei pende Già della sua ruina. - E quai, soggiunge Eva punta a quel biasmo, e quai dal labbro T’usciro, Adamo, acerbi detti? A mia Colpa o voglia d’errar, qual tu la chiami, 1435 Imputi ciò che presso a te non meno Avvenirmi potea? ciò che a te stesso Forse poteva anco avvenir? Se stato Tu fossi allor presente, alcuno inganno, Io ne son certa, in quel parlar del serpe, 1440 No, scorto non avresti: entr’esso e noi Cagion di nimistà non era alcuna; Odiarmi ei non potea: perchè di danni Dunque temerlo apportator? Non mai Dunque io dovea dal fianco tuo staccarmi, 1445 E, al par di prima, inanimata costa Sempre ivi affissa rimaner? Se mio Capo e signor tu sei, se tanto rischio Mi vedevi incontrar, perchè divieto Al mio partir con assoluto impero 1450 Non festi tu? Facil pur troppo allora Molto non ripugnasti, anzi l’assenso E ’l commiato mi desti. Ah! se costante E fermo stavi in tuo rifiuto, ancora Io sarei, tu saresti anco innocente. 1455 - È questo dunque l’amor tuo? ripiglia Irato allor la prima volta Adamo; E di mia tenerezza il premio è questo? Eri tu già perduta, ed io per anco Viver potea, potea goder eterno, 1460 Felice stato; eppur con teco, ingrata! Perdermi scelsi! e rinfacciarmi or sento La cagion del tuo fallo? Assai severo Non ti sembrai nel mio divieto! E ch’altro Far io potea? Del tuo periglio accorta 1465 Non ti fec’io? non tel predissi? Forse Non ripetei che insidïosi lacci Un fier nemico ci tendea? Restava Sol forza usar con te; ma qui la forza Un libero voler stringer non debbe. 1470 Vana fidanza di te stessa allora Ti trasportò, chè non trovar periglio Ti promettevi, o rivolgesti solo La vittoria e ’l trionfo in tuo pensiero. Io forse ancora errai, tant’alta e pura 1475 Credendo tua virtù che nulla mai Di malvagio assalirla osato avrebbe; Quest’è l’error ch’io piango, e che m’ha spinto A quel misfatto, onde tu stessa or sei L’accusatrice! E tal la sorte ognora 1480 Fia di ciascun che, in femminil virtude Posta soverchia fè, di donna in mano Abbandoni il governo: altera, audace Non soffrirà ritegno, e, a sè lasciata, Del mal che avviene incolperà primiera 1485 La debolezza e l’indulgenza altrui. In amare così querele alterne Essi l’ore spendean, ma niun se stesso Mai dannava però, nè alcun di quelle Vane contese lor fine apparìa.

 

* Il Paradiso perduto   (titolo originale: Paradise Lost ), pubblicato nel 1667 , è il poema epico  in versi sciolti (blank verse ) di John Milton  che racconta l'episodio biblico della caduta dell'uomo : la tentazione di Adamo  e Eva  a opera di Satana  e la loro cacciata dal giardino dell'Eden .

Fu pubblicato per la prima volta nel 1667 , in dieci libri; seguì una seconda edizione, del 1674 , divisa questa volta in 12 libri (in imitazione della suddivisione dell'Eneide  di Virgilio ) con delle piccole revisioni nel testo e l'aggiunta di una nota sulla versificazione.

Il poema tratta il racconto ebraico  - cristiano  - islamico  della caduta dell'uomo: la tentazione di Adamo  ed Eva  da parte di Lucifero , e la loro cacciata dal Giardino dell'Eden . Il fine di Milton, espresso nel primo libro, è "svelare all'uomo la Provvidenza eterna " (I, 26) e spiegare il conflitto tra tale Provvidenza eterna e il libero arbitrio.

Il personaggio principale del poema è Satana , l'Angelo caduto . Letto attraverso un prospettiva moderna, a taluni può sembrare che Milton rappresenti Satana in modo positivo e compassionevolmente, come un essere ambizioso e orgoglioso che sfida Dio Onnipotente , suo tirannico creatore, e muove guerra contro il paradiso , per esser poi sconfitto e fatto precipitare in terra. Per meglio dire, William Blake  (1757 -1827 ) grande ammiratore di Milton e illustratore di tale poema epico, disse di Milton che "era un vero poeta, e stava dalla parte del diavolo senza saperlo ".

Vicenda.

La storia è suddivisa in 12 libri, contro i 24 dei poemi omerici dell'Iliade  e dell'Odissea . Il libro più lungo è il IX, con 1189 versi, mentre il più breve, il VII, consta di 640 versi. Ciascun libro è preceduto da un sommario, intitolato L'Argomento . Il poema, seguendo la tradizione epica, inizia in medias res ("in the midst of things "), essendo poi l'antefatto esposto nei libri V-VI...

L'opera di Milton narra due vicende: quella di Satana e quella di Adamo ed Eva. Quella di Satana (o Lucifero) rende omaggio agli antichi poemi epici  di argomento guerresco. Inizia in medias res, dopo che Lucifero e gli altri angeli ribelli sono stati sconfitti e scaraventati da Dio nell'Inferno. Nel "Pandemonio ", Lucifero deve impiegare le sue abilità retoriche per far ordine tra i suoi seguaci; è affiancato dai suoi fedeli tenenti Mammona  e Belzebù . Alla fine della discussione, Satana si offre volontario per avvelenare la Terra, appena creata. Affronta da solo i pericoli dell'Abisso in un modo che ricorda molto quello di Ulisse  e di Enea  dopo i loro viaggi nelle regioni ctonie dell'Oltretomba.

L'altra vicenda è fondamentalmente diversa, una nuova sorta di epica: quella "domestica ". Adamo ed Eva vengono presentati per la prima volta, nella letteratura cristiana , come dotati di attività anche prima di essere macchiati dal peccato: essi hanno passioni, personalità e sesso . Satana tenta Eva con successo, approfittando della sua vanità e ingannandola con la sua dialettica; Adamo, vedendo che Eva ha peccato, commette coscientemente il medesimo errore, mangiando anche lui il frutto proibito. In tal maniera, Milton ritrae Adamo come un personaggio eroico, ma anche come un peccatore ancor più grande di Eva. Dopo aver compiuto il peccato originale, essi hanno ancora caratteristiche sessuali, ma ora con una nuova sorta di sensualità che prima non possedevano. Dopo aver preso coscienza del loro errore, quello appunto di consumare il frutto  dell'Albero della conoscenza , Adamo ed Eva prendono a lottare. Ad ogni modo, le suppliche di Eva ad Adamo fanno sì che i due si riconcilino. Adamo intraprende un viaggio visionario con un angelo , nel quale è testimone degli errori dell'uomo e del Diluvio universale , ed è incommensurabilmente rattristato dal peccato  che hanno commesso attraverso l'assunzione del frutto. Ad ogni modo, gli viene anche mostrata la speranza, e cioè la possibilità di redenzione, attraverso la visione di Gesù  Cristo. Essi, successivamente, vengono banditi dall'Eden , e un angelo aggiunge che qualcuno potrà trovare "un paradiso dentro di sé ". Adamo ed Eva, ora, hanno un rapporto più distante con Dio, il quale è onnipresente ma invisibile, a differenza del tangibile Padre nel Giardino dell'Eden.

Personaggi principali.

Satana.

Inizialmente conosciuto come Lucifero, egli era un orgoglioso angelo che non riusciva a pensare a se stesso uguale agli altri angeli. Il giorno in cui Dio nominò il Figlio suo successore al potere, Lucifero si ribella a causa della propria invidia, prendendo con sé un terzo dell'intera popolazione di angeli del Paradiso. Egli è enormemente pieno di sé, e sicuro di poter abbattere Dio; le sue parole sono sempre fraudolente e ingannevoli. Assume varie forme nel corso della storia, le quali sono il riflesso della sua decadenza morale e razionale. Prima è un angelo caduto di considerevole levatura; successivamente un umile cherubino ; un cormorano ; un rospo ; e infine un serpente . Tutto ciò è la raffigurazione di un'incessante attività intellettuale, senza alcuna abilità di pensare adottando un'ottica morale.

Adamo ed Eva.

Adamo è forte, intelligente e razionale, nato per la meditazione e la prodezza, e prima della caduta è perfetto esattamente come ogni essere umano potrebbe essere. È però caratterizzato anche da imperfezione, dacché talvolta s'abbandona a imprudenze e ad atteggiamenti irrazionali. Come conseguenza della caduta, la sua ragione pura e il suo intelletto vengono da lui persi, e l'uomo non è più capace di conversare alla pari con gli angeli (come fece con l'Arcangelo Raffaele ), ma è come unilaterale (come si vede, con l'Arcangelo Michele , dopo la caduta). Il suo punto debole è l'amore  per Eva. Egli confida a Raffaele che la sua attrazione per lei è travolgente, qualcosa che la sua ragione non è in grado di vincere. Dopo che Eva si nutre dall'Albero della Conoscenza, egli decide di compiere lo stesso atto, avendo realizzato che se lei è votata a ciò, egli deve seguirla nel suo destino infausto, per non perderla - anche se ciò significa disobbedire a Dio.

Eva è la madre di tutta l'umanità, inferiore ad Adamo nelle facoltà intellettive (perché l'uomo è considerato più vicino a Dio rispetto alla donna) e dotata di tenerezza e dolce grazia affettiva . Ella lo supera nella bellezza, per la quale essa stessa s'innamora della propria immagine al rimirarla nel riflesso in uno specchio d'acqua (qui v'è un richiamo al mito greco di Narciso ). È proprio la sua vanità a essere sfruttata da Satana per persuaderla a nutrirsi dall'Albero della Conoscenza, per mezzo di lusinghe. Eva è chiaramente intelligente, ma a differenza di Adamo non è desiderosa di apprendere, essendo infatti assente nella conversazione di Adamo e dell'Angelo Raffaele nel libro VIII, e nelle visioni di Adamo presentate da Michele nei libri XI e XII. Eva non crede che sia suo compito andar in cerca della conoscenza in modo indipendente; preferisce invece che Adamo gliela trasmetta solo in un secondo momento. Il primo caso in cui evade dalla sua passività è quando s'avventura fuori da sola e finisce con l'ingerire il frutto proibito.

Dio.

Il Dio miltoniano è onnisciente, onnipresente e onnipotente: ciò sta a dire che egli ha prescienza degli eventi futuri, però non predestina - cosa che negherebbe interamente l'idea del libero arbitrio. La difficoltà nell'interpretazione del personaggio di Dio nel Paradiso Perduto  è che è più una personificazione di idee astratte che un essere reale; egli è incarnazione della pura ragione (infatti, vi è un'interpretazione che vede in Satana la passione che combatte la ragione, facendone un'anticipazione dell'eroe romantico). Egli permette che il male accada, ma crea il bene dal male. Il critico letterario William Empson (1906 -1984 ) ha chiarito molti dubbi dei lettori sul Dio di Milton nella sua influente opera, che porta lo stesso nome.

Il Figlio.

Il Figlio è la manifestazione di Dio nell'azione, il collegamento fisico tra Dio il Padre e la sua creazione, formando insieme a lui un Dio perfetto e completo. Personifica l'amore e la compassione e decide spontaneamente di morire per l'umanità, per redimerla, mettendo in luce la sua dedizione e il suo altruismo. Attraverso la sua forma umana, il Figlio verrà fatto discendere da Adamo, per mezzo del quale tutti gli uomini furono morti; ma egli sarà un secondo Adamo, per mezzo del quale tutti gli uomini saranno salvati. Nel Giorno del Giudizio , il Figlio apparirà nel cielo, avrà chiamato a raccolta da ogni angolo del mondo tutti, e condannerà i peccatori all'Inferno. L'ultima visione di Adamo, nel libro XII, è il sacrificio del Figlio come Gesù.

  WOOD ENGRAVING - GRAVURE SUR BOIS - HOLZSTICH - XILOGRAFIA.

XILOGRAFIA  ORIGINALE  (TIRATURA  D'EPOCA)  ESTRATTA  (TOLTA)  DALL'OPERA: "IL  PARADISO  PERDUTO  DI  GIOVANNI  MILTON",  TRADOTTO  DA  LAZZARO  PAPI,  CON  ILLUSTRAZIONI  DI  GUSTAVO  DORE';  MILANO, STABILIMENTO  DELL'EDITORE  EDOARDO  SONZOGNO,  1881.

L'INCISIONE  E'  UNA  TAVOLA  A  PIENA  PAGINA, CON  MARGINI  BIANCHI  E  RETRO  BIANCO, HA  PIU'  DI  135  ANNI  ED  E'  IN  BUONO  STATO,  E' BELLISSIMA,  ABBASTANZA  NITIDA,  MOLTO PITTORESCA  E  SUGGESTIVA.  MISURE  PAGINA  cm  23,5 x 34,  MISURE  PARTE  INCISA  (LA  SOLA  IMMAGINE)  cm  20 x 25  CON  MARGINI  BIANCHI,  MISURE  CON  PASSEPARTOUT  cm  32 x 39,  RETRO  BIANCO.

 

L'INCISIONE VIENE FORNITA COMPLETA DI UN PASSEPARTOUT DI TIPO PROFESSIONALE A SMUSSO, DI COLORE AVORIO, CHE TRASFORMA L'IMMAGINE IN UN PEZZO UNICO DA COLLEZIONE.

 

 

ATTENZIONE! QUESTA é UN'ASTA DEDICATA AGLI APPASSIONATI DI STORIA LOCALE, DI STORIA DEGLI USI E DEI COSTUMI DELLE GENTI ITALICHE, DI STORIA DELLE ARTI E DEI MESTIERI, AGLI AMATORI D'ARTE  E DEL BELLO IN TUTTE LE SUE MANIFESTAZIONI E AI COLLEZIONISTI DI PICCOLO ANTIQUARIATO CARTACEO: CHI NON HA DIMESTICHEZZA CON QUESTO GENERE DI COSE é PREGATO DI NON FARE OFFERTE O COMUNQUE DI CHIEDERE PREVENTIVAMENTE MAGGIORI INFORMAZIONI.

 

DI COSA SI TRATTA? Per essere il più chiaro possibile (per i non esperti): SI TRATTA DI UNA PAGINA ORIGINALE DI UN LIBRO ORIGINALE DEL 1881; QUESTA PAGINA ORIGINALE DEL 1887 E' STATA TOLTA DAL LIBRO ORIGINALE DEL 1881 ED E' STATA INSERITA DENTRO UN PASSEPARTOUT DI TIPO PROFESSIONALE A SMUSSO (CON IL TAGLIO INTERNO NON DIRITTO MA SMUSSATO, DI SBIECO), PASSEPARTOUT CHE E' STATO TAGLIATO SU MISURA APPOSTA PER L'IMMAGINE XILOGRAFICA CONTENUTA IN QUESTA PAGINA, IN MODO DA POTERLA VALORIZZARE IL PIU' POSSIBILE E PER CONSENTIRNE LA SUCCESSIVA INCORNICIATURA (CHE E' CONSIGLIABILE: L'OGGETTO E' PRONTO PER ESSERE INCORNICIATO).

 

Insieme a questa incisione riceverete GRATUITAMENTE un piccolo CERTIFICATO ARTISTICO DI GARANZIA, con l'indicazione di tutte le notizie in mio possesso relative all'opera acquistata.

ATTENZIONE, SI TRATTA DI UN'IMMAGINE INGRANDITA, PER FARE VEDERE  IL PIU' POSSIBILE I DETTAGLI DELL'OGGETTO: LE DIMENSIONI REALI  SONO PIU' PICCOLE E SONO RIPORTATE NELLA DESCRIZIONE DELL'OGGETTO IN MODO PRECISO ED INEQUIVOCABILE: AL MEZZO CENTIMETRO!!!      

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